Cosa Nostra cerca un nuovo capo e Messina Denaro resta un fantasma

Ha ancora bisogno di un capo, la mafia? E soprattutto, chi potrà essere il nuovo vertice di una Cosa nostra che da stanotte è orfana di un uomo-simbolo come Totò Riina?

Foto d'archivio
Foto d'archivio

Ha ancora bisogno di un capo, la mafia? E soprattutto, chi potrà essere il nuovo vertice di una Cosa nostra che da stanotte è orfana di un uomo-simbolo come Totò Riina? Se lo chiedono gli inquirenti che, a Palermo, seguono l'evoluzione di Cosa Nostra, priva di una leadership unica e operativa e alle prese col fenomeno delle scarcerazioni dei boss e dei gregari, che crea un notevole ricambio nell'organizzazione, impedendole però di consolidare figure di riferimento che vadano bene per tutti i mandamenti della città e della provincia di Palermo. Riina rappresentava questo, nella mafia, ragionano gli investigatori: esimeva i capi dal combattersi fra di loro per imporsi sugli altri. E la figura di Matteo Messina Denaro, per quanto mitizzata soprattutto dai media, appare inconsistente dal punto di vista della presenza fisica e del carisma: il superlatitante di Castelvetrano (Trapani) è riuscito infatti a far perdere del tutto le sue tracce e deve la libertà alla capacità di non intrattenere contatti diretti se non con pochissimi, e più che fidati, uomini di riferimento. Un atteggiamento che vale la prosecuzione di una latitanza che dura ormai da 24 anni, facendo però spazientire lo stesso Riina, che nei colloqui intercettati in carcere si chiedeva dove fosse e cosa facesse, per il bene comune della mafia, il boss del Trapanese. La mafia dei corleonesi e di Totò Riina, che pure ne era il dittatore, passava comunque attraverso il confronto e l'incontro, ne aveva la necessità per comunicare, convocando la commissione provinciale: ma questo organismo, che comandava in tutta la Sicilia, non si riunisce da quando il capo fu catturato, a gennaio del '93.

Oggi i boss che si trovano sul territorio sono costretti a ridurre al minimo i summit, per evitare intercettazioni, arresti, tradimenti da parte di possibili pentiti. Poi, il carisma: nessuno lo possiede, se non nel proprio ambito territoriale; Giovanni Grizzaffi, nipote diretto di Riina, è un capo che può andare bene per Corleone, ma che nessuno riconosce a Palermo. Gregorio Di Giovanni, Tommaso Lo Presti, Alessandro D'Ambrogio, Giulio Caporrimo, Cesare Carmelo Lupo, Antonino Sacco, Filippo Adelfio, Sandro Capizzi, sono leader in città e nelle loro zone di riferimento, ma nessuno si sottomette a nessuno e dunque a gestire gli affari delle cosche dovrebbe essere ancora la struttura federativa dell'organizzazione, senza un unico capo riconosciuto. Primo fra tutti, il rinnovato business della droga, quello che fece fare il salto di qualità ai corleonesi negli anni '70 e '80 e che ora è tornato in voga, perchè porta tanti soldi a una Cosa nostra in crisi di liquidità, dato che la tradizionale fonte di approvvigionamento, gli appalti e le estorsioni, sono falcidiati da una situazione economica asfittica e sempre più difficile per gli stessi soggetti attivi, pubblica amministrazione, imprenditori, commercianti.

I rischi e i prodromi di una guerra fra cosche non ci sono, sostiene chi indaga: troppi problemi hanno creato le indagini, che hanno disarticolato i clan, perchè i boss decidano di riprendersi a combattersi armi in pugno. Ma non si può mai sapere e per questo la guardia rimane alta, a cominciare dalle autentiche fortificazioni che vengono realizzate in questi giorni al palazzo di giustizia, per renderlo un bunker inaccessibile.

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