Scena del crimine

"Mi sono tolto un peso". E il filippino uccise la contessa

Il 10 luglio 1991 la contessa Alberica Filo della Torre venne uccisa nella sua casa all'Olgiata. Il giallo venne risolto dopo 20 anni grazie all'esame del Dna

"Mi sono tolto un peso". E il filippino uccise la contessa

Il test del Dna. Fu proprio grazie alla prova regina che vent'anni dopo si arrivò alla soluzione del caso che sconvolse l'Italia nell'estate del 1991, quando la contessa Alberica Filo della Torre venne trovata morta nella sua camera da letto. Iniziò così il giallo dell'Olgiata, che portò gli investigatori a indagare tra ex domestici, vicini di casa, servizi segreti e conti svizzeri. Un mistero che durò vent'anni, fino a quando la riapertura del caso e il riesame dei reperti rinvenuti sulla scena del crimine portarono gli inquirenti al punto da cui era partito tutto e a una delle persone che aveva prestato servizio alla villa della contessa. "L’esame dei reperti ha risolto il caso", spiega a IlGiornale.it la dottoressa Marina Baldi, biologa specialista in genetica medica, che venne nominata consulente di parte dalla famiglia della vittima. E nel 2011 il killer venne arrestato.

Il delitto nella villa "bunker" dell'Olgiata

L'Olgiata. È qui che ebbe luogo il 10 luglio del 1991 l'omicidio della contessa Alberica Filo della Torre. Si tratta di un complesso residenziale situato sulla Cassia, a nord di Roma, e costruito attorno ai campi da golf. Sorto alla fine degli anni Sessanta e destinato, inizialmente, ai soci del Golf Club, al tempo ospitava circa 8mila residenti, tra "imprenditori, finanzieri, personaggi del mondo dello spettacolo e della politica", come riportato dall'Unità del 13 luglio 1991. Una sorta di città nella città, protetta da "un impianto televisivo a circuito chiuso" e da "guardie armate agli ingressi delle ville". Tra queste c'era anche l'abitazione di Pietro Mattei e Alberica Filo della Torre, una villa "bunker", come la definirono alcuni articoli dell'epoca.

La casa, riportò l'Unità che ne fornì anche una piantina, aveva varie entrate: "Quella principale - si legge nel testo dell'articolo - sul davanti, è protetta da uno spesso cancello nero in ferro battuto. Accanto, ancora un portoncino in ferro, ma più piccolo". Ma quel giorno qualcuno riuscì a penetrare in quel luogo "strettamente controllato", dove la sicurezza era assicurata da cellule fotoelettriche e da portoni d'ingresso con chiavi magnetiche e codici d'accesso. Un sistema pensato per contrastare chi veniva dall'esterno e le effrazioni notturne, "ma obiettivamente, durante il giorno, chi voleva entrare entrava", rivelerà Pietro Mattei a Delitti su History Channel, specificando però che la presenza dei cani non avrebbe permesso a uno sconosciuto di passare inosservato.

Quel 10 luglio 1991 la contessa Alberica Filo della Torre avrebbe dovuto festeggiare il decimo anniversario delle nozze con l'imprenditore Pietro Mattei e, per questo, in casa erano già iniziati i preparativi dalla mattina. Stando alla ricostruzione fatta al tempo, intorno alle 7.30 del mattino, la cameriera portò la colazione alla contessa, che scese poi in cucina intorno alle 8.30, per risalire in camera un quarto d'ora più tardi. La donna non uscirà più viva dalla propria stanza. Il marito aveva lasciato la casa alle 8.15, come confermato dalle videocamere, per recarsi in ufficio all'Eur, dove era arrivato poco prima delle 9. In casa, al momento del delitto, c'erano diverse persone: oltre ai due figli della contessa, Manfredi di 9 anni e Domitilla di 7, erano presenti le due domestiche filippine, la baby-sitter inglese e alcuni operai. Intorno alle 9.15, Domitilla andò a bussare alla porta della mamma, ma non ottenne alcuna risposta. Tornò più tardi accompagnata dalla domestica, tra le 10.30 e le 11, ma dall'altra parte venne accolta dal silenzio.

A quel punto, usando una seconda chiave, la domestica entrò nella camera da letto. A terra, tra il letto e la parete, giaceva il corpo della contessa con il capo sanguinante avvolto in un lenzuolo. A lato della testa, c'era uno zoccolo insanguinato. L'assassino colpì prima la donna per stordirla e poi la strangolò: "Abbiamo accertato - rivelerà a Delitti il pm che si occupa del caso - che la morte è avvenuta non per il colpo subito sulla testa, ma per uno strozzamento". Un delitto quindi non premeditato, dal momento che l'assassino non aveva con sé alcuna arma. Successivamente il medico legale fissò l'ora della morte tra le 8.40 e le 9.10. Dalla stanza mancavano alcuni gioielli, tra cui un anello e un collier, dal valore di circa 80 milioni di lire. Per questo il primo movente ipotizzato fu quello di una rapina finita male. Ma ben presto gli inquirenti si ritrovarono a fare i conti con servizi segreti, ex dipendenti rimasti in cattivi rapporti con la contessa, presunti amanti e conti svizzeri.

Il killer conosceva la casa

Data la mancanza dei gioielli, la prima ipotesi fu quella legata alla rapina. Il killer poteva essere entrato nella stanza per rubare ma, scoperto da Alberica, la avrebbe aggredita e uccisa. Qualcosa però non convinceva gli inquirenti: al polso della vittima c'era un Rolex d'oro, ma l'assassino l'aveva inspiegabilmente lasciato lì. Così i sospetti si concentrarono sulle persone presenti nella villa quel 10 luglio 1991 e gli investigatori, guidati dal magistrato Cesare Martellino, le interrogarono tutte un paio di giorni dopo il delitto. Scoprirono che l'ingegner Mattei era uscito di casa alle 8.15 ed era arrivato al lavoro circa 40 minuti dopo. Poi era rimasto nel suo ufficio, fino al momento della chiamata che gli annunciava un malore della moglie e che lo esortava a tornare a casa. Solo a quel punto era uscito dal suo ufficio: un alibi inattaccabile, che lo escludeva totalmente dalla lista dei sospettati.

Un buco di circa mezz'ora invece figurava nelle dichiarazioni della baby sitter inglese dei bambini: sostenne di essersi recata a fare la doccia e a sciacquare il costume, dopo essere stata in piscina, ma le spiegazioni della donna non convincevano del tutto gli inquirenti, che però non la trattennero a lungo e dopo poco tempo le permisero di tornare in Inghilterra. Tra gli operai presenti in casa, i due giardinieri erano stati tenuti sott'occhio dalla domestica filippina che aveva scoperto il corpo della contessa, mentre gli altri si trovavano dietro la villa, ma loro carico non emerse nulla. Infine le due domestiche filippine faticarono a rispondere alle domande fin dal primo interrogatorio, ma al tempo vennero definite "di mentalità istintivamente diffidente", tanto che non sollevarono l'interesse degli inquirenti.

Altre due persone entrarono fin da subito nella rosa dei sospettati: l'ex domestico filippino Manuel Winston, che pareva non essere rimasto in buoni rapporti con i coniugi Mattei, e il figlio di una ex dipendente della villa, Roberto Jacono. Winston era stato licenziato dalla contessa Filo della Torre, con la quale aveva un debito, e non aveva un alibi convincente per quella mattina. Il filippino infatti sosteneva di essere in servizio in un'altra villa della zona, dove non era presente nessuno e sostenne di essere stato visto, intorno alle 11, dal figlio dei proprietari. Il pm Martellino ricorda nel documentario Delitto di aver verificato l'alibi dell'ex domestico dei Mattei, riscontrando delle incongruenze: il figlio dei proprietari, infatti, confermò di aver visto Winston a quell'ora, "ma era il giorno prima". Così Manuel finì in cima alla lista dei sospettati. A scagionarlo saranno delle tracce di sangue trovate sui suoi pantaloni: le analisi infatti diranno che si trattava del suo sangue, non di quello della contessa.

Pietro Mattei, marito di Alberica Filo della Torre
Pietro Mattei, marito di Alberica Filo della Torre

Nel corso di uno dei sopralluoghi successivi al giorno del delitto, le forze dell'ordine trovarono nella cassetta della posta una chiave del cancello della villa, accompagnata da una lettera di Franca Senepa, l'ex dipendente che si occupava dei bambini. "La donna - si legge sul numero dell'Unità del 16 luglio 1991 - finite le lezioni pei i bambini, aveva riconsegnato le chiavi del cancelletto imbucandole nella cassetta della posta ed allegando una lettera di commiato". Una lettera formale, pare a causa delle divergenze avute con la contessa. Il figlio della donna, Roberto Jacono, come spiega Martellino a Delitti, "aveva preteso abbastanza vivacemente spiegazioni sul motivo del licenziamento. Si accertò anche che durante il periodo estivo, Jacono aveva frequentato la casa". Così Jacono venne interrogato e anche sui suoi pantaloni vennero trovate tracce di sangue, che furono analizzate dalla polizia scientifica. Le tracce però erano troppo piccole, tanto da non consentire agli esperti di stabilire se si trattasse di materiale genetico appartenente alla vittima. Così sia i sospetti su Manuel Winston che quelli su Roberto Jacono andarono scemando.

Dagli 007 italiani alla pista cinese

Nel 1993, due anni dopo la morte di Alberica Filo dalla Torre, le indagini per il delitto dell'Olgiata si intrecciarono con quelle di un altro grande caso, quello dei fondi neri del Sisde, i servizi segreti italiani. In autunno l'ex capo di gabinetto dell'agenzia Michele Finocchi venne accusato di aver costituito conti privati usando i soldi del Sisde. Ma cosa c'entravano gli 007 italiani con il delitto dell'Olgiata? Apparentemente nulla, ma una circostanza aveva colpito gli inquirenti: il giorno dell'omicidio, Finocchi era nella villa bunker. "Quando sono arrivato l'ho trovato nella stanza", ha dichiarato il pm a Delitti. Tra i coniugi Mattei e l'uomo del Sisde infatti c'era un rapporto di amicizia: "Era una persona che conoscevamo da 8 o 10 anni - spiegò Mattei nel documentario di History Channel - chiamai Michele Finocchi quando non sapevo ancora che mia moglie fosse stata assassinata".

Questo legame spinse gli investigatori a concentrarsi sull'ipotesi di un delitto d'affari e, per questo, vennero avviate indagini patrimoniali. Fu così che vennero scoperti dei fondi bancari aperti in Svizzera che, uniti alla latitanza di Finocchi, fecero sospettare un legame tra lo scandalo del Sisde e il delitto dell'Olgiata. Si pensò infatti che su quei conti potessero essere passati i soldi dei servizi segreti. Un'ipotesi che si rivelò infondata: i controlli patrimoniali infatti non dimostrarono nulla di tutto questo e anche la pista legata a un possibile delitto d'affari venne abbandonata.

Qualche tempo dopo, nel 1995, emerse la pista cinese, quella legata all'imprenditore Franklin Yung, un amico dei coniugi Mattei che viveva in una villa all'Olgiata. A far finire Yung sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti fu la moglie dell'imprenditore, che lo descrisse come un uomo violento, come riportato al tempo da Repubblica. Inoltre quando vennero riesaminati i risultati dell'autopsia, sembrò che la contessa fosse stata uccisa con una tecnica particolare di soffocamento, usata nelle arti marziali.

Ad alimentare i sospetti degli investigatori contribuì anche l'atteggiamento di Yung, che lasciò improvvisamente l'Italia poco dopo la comparsa del suo nome tra i possibili colpevoli. In più, c'era un buco nelle dichiarazioni dell'imprenditore che, stando a quanto riportò Repubblica, aveva dichiarato "di essere uscito di casa attorno alle 8 e di essere arrivato in ufficio alle 9". Ma, per percorrere la strada dall'Olgiata a via Flaminia, dove Yung aveva il negozio, ci vogliono circa 20 minuti. Inoltre il domestico portoghese negò la versione dell'imprenditore, che dichiarò di aver fatto colazione con il padre. Ma, nonostante le incongruenze, anche la pista cinese, così come quella legata allo scandalo del Sisde, si rivelò un vicolo cieco. E nel giugno del 2005 l'inchiesta sul caso dell'Olgiata venne archiviata.

Dopo 20 anni la soluzione del caso arriva grazie al Dna

Nonostante lo stop delle indagini, Pietro Mattei, il marito della vittima, non si arrese e continuò a insistere per la riapertura del caso. Fino a quando non convinse la procura di Roma a riprendere in mano le indagini, nel 2007, grazie a un'istanza in cui si chiedeva di riesaminare i reperti, date le nuove tecniche di analisi sviluppatesi nel frattempo. In particolare, riportò il Corriere, venne chiesto il riesame delle tracce ematiche trovate sui pantaloni di Roberto Jacono e Manuel Winston, indagati inizialmente e poi proscioli, quelle sul lenzuolo usato per coprire il volto della contessa e quelle sullo zoccolo e sul Rolex al polso della vittima.

"La prima parte delle indagini - spiega a IlGiornale.it la biologa esperta in genetica medica Marina Baldi, nominata consulente di parte dalla famiglia Mattei, insieme al dottor Fiorentino - fu eseguita da alcuni medici legali della Sapienza e del Gemelli, loro presero la prima quota dei reperti e poi analizzarono i vari oggetti in maniera non completa". La famiglia della vittima però, ricorda ancora la Baldi, "non fu soddisfatta, anche su indicazione dei legali e dei consulenti, e quindi venne richiesto dagli avvocati Marazzita e Squillante di proseguire con le indagini e di non archiviare, modificando possibilmente tutto l’apparato per le indagini". Così il Ris di Roma sezione Biologia venne incaricato di svolgere altri esami.

Manuel Winston
Manuel Winston

Nel frattempo, vennero recuperate anche le registrazioni delle telefonate fatte al tempo. Tra queste, venne trovata anche quella effettuata dall'ex domestico filippino Manuel Winston, il cui telefono era stato posto sotto controllo. Si scoprì che l'uomo aveva effettuato una chiamata a un amico, chiedendogli il contatto di un ricettatore di gioielli. Una telefonata rimasta inascoltata per 20 anni, che portò a galla la verità sul delitto dell'Olgiata. Ma a incastrare il domestico filippino definitivamente fu una traccia di Dna ritrovata sul lenzuolo usato per coprire il volto della vittima. "Fu individuato sul lenzuolo che copriva il capo della contessa, con la quale era stata strangolata, una traccia di sangue puro dell’assassino Manuel Winston - ricorda l'esperta Marina Baldi - Sempre sul lenzuolo fu individuata anche una seconda traccia mista che era composta da sangue della contessa e sangue di Manuel Winston. Inoltre il Dna di Winston fu trovato anche sull’orologio che era rimasto al polso della contessa, in quanto si trattava di un orologio con un braccialetto d’oro monopezzo, quindi non era stato possibile strapparlo".

Le tracce trovate dai Ris permisero di risolvere il caso, a distanza di 20 anni: "Queste tracce furono dirimenti in quanto Winston non lavorava più dalla contessa da tempo al momento dell’omicidio e quindi la presenza del suo Dna sul lenzuolo e sull’orologio non era giustificabile in altra maniera se non con la sua presenza al momento dell’omicidio", ha dichiarato la biologa specialista in genetica medica. I Ris inoltre riuscirono a ricostruire il modo in cui il Dna di Winston era finito sul lenzuolo: "Winston aveva una ferita tondeggiante proprio sul gomito - spiega Marina Baldi - e il Ris, con un manichino e il lenzuolo originale, ha ricostruito esattamente come è stato possibile che il filippino si appoggiasse con il gomito per avere più presa nello strangolare la povera vittima".

Così Manuel Winston venne arrestato nel 2011 e qualche giorno dopo confessò: "Mi sono tolto un peso", disse agli inquirenti. L'uomo venne condannato a una pena di 16 anni carcere ma, come riferito da AdnKronos, dovrebbe tornare libero il prossimo 10 ottobre.

Dopo 20 anni, il giallo dell'Olgiata venne risolto grazie alle tecniche di genetica forense, che nel tempo fecero passi da gigante: "Siamo arrivati a poter analizzare tracce infinitesimali di materiale biologico addirittura da singola cellula con dei parametri ipervariabili che ci consentono di individuare e identificare una persona con una probabilità elevatissima - spiega Marina Baldi - cosa che nel 1991 era impossibile, perché si utilizzavano dei parametri ancora molto grossolani rispetto a quelli di oggi".

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