Il delitto di Garlasco

Dal posacenere sporco al cellulare di Chiara: le piste dimenticate dagli investigatori

Per il delitto di Garlasco, le indagini si sono concentrate solo ed esclusivamente su Alberto Stasi, tralasciando quelle che sarebbero potute essere importanti piste investigative

Delitto di Garlasco, dal posacenere sporco al cellulare di Chiara Poggi: le piste dimenticate dagli investigatori Esclusiva
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Il leit-motive di un qualsiasi thriller che si rispetti è la necessità di risolvere un caso di omicidio nelle prime 48 ore. Dopo la strada è tutta in salita. La realtà – per fortuna, verrebbe da dire – è molto diversa. Che si impieghino 48 ore, 72 o qualche settimana non fa molta differenza, se si tratta di rendere giustizia a una vittima e ai suoi familiari e inchiodare un assassino alle proprie responsabilità.

Riguardo l’omicidio di Garlasco, invece, sembra che gli organi inquirenti abbiano preso alla lettera quel leit-motive di cui sopra e si siano fatti prendere dalla frenesia di trovare il mostro nel più breve tempo possibile. E in effetti la cosa è più che comprensibile: non capita tutti i giorni di avere a che fare con un caso tanto estremo. Proviamo a immaginare: è estate, a Garlasco e nei dintorni non succede nulla, i media locali in generale fanno quel che possono per riempire i palinsesti. Improvvisamente, la bomba.

Sciami di giornalisti da tutta Italia piombano sulla cittadina, la comunità – già sconvolta per l’uccisione di una ragazza di 26 anni – viene letteralmente violata nella propria routine quotidiana. Immaginate di essere nei panni di un esponente delle forze dell’ordine o di un procuratore: è l’inferno. Bisogna mettersi al lavoro in fretta, bisogna organizzarsi, bisogna impostare il lavoro d’indagine, rassicurare la popolazione, gestire la stampa sempre più aggressiva e affamata di dettagli. Ci vuole un poker d’assi, ci vuole un colpevole.

Ecco, a Garlasco sembra essere accaduto questo: un mix di pressione mediatica, impreparazione, errori di valutazione hanno trascinato Alberto Stasi, un 24enne del posto che sognava di laurearsi di lì a poche settimane, sulla graticola. Perché se è vero che una sentenza di Cassazione l’ha inchiodato a 16 anni di carcere per omicidio volontario, è altrettanto vero che nell’immediatezza dei fatti, subito dopo la scoperta del cadavere di Chiara Poggi e nelle settimane successive, le cose che sono state fatte, sono state fatte male.

Le indagini sull’omicidio di Chiara Poggi hanno lasciato aperta una voragine. Se su Alberto Stasi si è scavato a fondo, con tenacia, con convinzione e, bisogna sottolinearlo, in modo assolutamente legittimo, molte altre sono le cose tralasciate. Non cose di poco conto. Ci arriviamo.

“Se non lui chi?”. È stato questo il mantra degli investigatori, dell’accusa e del legale della famiglia Poggi. Ormai l’abbiamo imparato a memoria: Chiara non avrebbe mai aperto la porta in pigiama a nessuno con cui non avesse avuto una forte confidenza; il fatto che non si sia difesa indica che non si aspettava un’aggressione e l’accanimento con cui l’assassino l’ha colpita suggerisce che tra i due ci fosse un forte sentimento, un qualche tipo di legame. Ovvio che il primo a finire sotto la lente d’ingrandimento fosse Alberto Stasi. Sarebbe stato strano il contrario.

Ma tutti gli altri? Già, gli altri chi? Dopotutto, il messaggio passato sin da subito era – ed è ancora oggi – che Chiara non avesse amici. L’abbiamo conosciuta come una ragazza timida, riservata, dedita esclusivamente al lavoro e alla relazione con il fidanzato. Ma ne siamo proprio sicuri? Siamo sicuri che la vita privata di Chiara Poggi sia stata scandagliata con la stessa attenzione riservata ad Alberto? E ancora: ci si è chiesti se qualcun altro, a parte il fidanzato, potesse avere qualche motivo per uccidere? Si è indagato per verificare se qualcuno potesse aver mentito su quella mattina? La risposta – che avrete già intuito – è un no categorico.

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Le possibili piste dell'omicidio di Garlasco

Non è stato fatto tutto il necessario per escludere altre possibili piste investigative che, ve lo dimostreremo, c’erano. C’erano eccome. E nel constatare la quantità di possibili alternative a quella cristallizzata dalla Cassazione, vengono i brividi. Si ha come l’impressione che gli inquirenti si siano “accontentati” della soluzione più semplice, quella più a portata di mano e “digeribile” in termini mediatici.

Consentiteci di mettere le mani avanti: gli elementi alternativi sono talmente tanti che meriterebbero ciascuno un lungo approfondimento. Non è escluso che lo faremo, per ora porteremo alla vostra attenzione i più clamorosi. Cominciamo con il dire che nell’immediatezza dei fatti, si disse che quel giorno, il 13 agosto 2007, a Garlasco non ci fosse nessuno, che Chiara e Alberto fossero praticamente da soli.

Difficile da credere per una cittadina di circa 10mila abitanti. D’accordo, era quasi Ferragosto, ma da qui a dire che in città non ci fosse nessuno è un’esagerazione. Di più: quella mattina, precisamente nella fascia oraria indicata dall’accusa per inchiodare Alberto Stasi (9.12 – 9.35, ndr), le persone presenti a Garlasco che conoscevano bene Chiara Poggi erano diverse. Non tutte con un alibi confermato.

E qui occorre la prima parentesi: è bene specificare subito che gli alibi delle persone presenti a Garlasco quella sciagurata mattina non vennero mai verificati correttamente. E questo per una ragione molto semplice: le indagini preliminari svolte dalla procura di Vigevano partivano dalla certezza – poi verificatasi errata – che l’omicidio di Chiara Poggi fosse avvenuto nella seconda metà della mattinata, tra le 11 e le 12.30. E di questo balletto degli orari abbiamo già parlato. Quando nel 2009 – due anni dopo l’omicidio – cambiano le carte in tavola, risentire tutte le persone già ascoltate nel 2007 sarebbe stato poco utile (e comunque non è stato fatto), anche in considerazione del fatto che un imputato c’era già: Alberto Stasi, appunto.

Nonostante questo, anche le persone sentite nel 2007 in relazione alla seconda parte della mattinata furono sentite in modo piuttosto approssimativo. Leggendo gli atti, infatti, si ha l’impressione che le indagini svolte nell’immediatezza dell’omicidio siano state delle chiacchiere tra amici. Quasi a nessuno, tanto per dirne una, fu chiesto di supportare le proprie dichiarazioni con dei riscontri oggettivi. Le dichiarazioni rese non vennero adeguatamente confrontate, le illogicità non furono chiarite, tante domande non vennero nemmeno poste. Nessuno (eccetto Stasi) venne sottoposto a perquisizioni, a nessuno vennero sequestrati telefoni o computer, a nessuno furono controllate le scarpe possedute o le biciclette conservate in garage. Nulla.

Possiamo tranquillamente dire che le uniche indagini – con tutti i loro limiti e non senza errori – furono a carico di Alberto Stasi. Chissà se magari ampliando il raggio d’azione oggi staremmo ancora parlando di questo caso. Viene da chiedersi se Stasi oggi sarebbe rinchiuso in carcere se le indagini fossero state condotte un tantino meglio. Una provocazione? Certo, da qualcuno potrà sicuramente essere così interpretata, ma lo diciamo con amarezza e con la massima serietà possibile, nella consapevolezza che oggi molto di quello che si sarebbe potuto – e dovuto – fare è semplicemente impossibile da realizzare, visto il tempo trascorso.

Per esempio, nelle fasi iniziali, le verifiche fatte a casa di Stasi si sarebbero dovute fare anche a casa delle persone più immediatamente vicine alla famiglia Poggi e i cui componenti in quella mattina erano sicuramente a Garlasco. Parliamo di interi nuclei familiari, dove non necessariamente gli inquirenti avrebbero trovato qualcosa di utile alle indagini, ma che sarebbe stato doveroso scandagliare a fondo, perché di fronte a un omicidio come quello di Garlasco non si sarebbe dovuto escludere nulla. Cosa che invece è stata puntualmente fatta.

Sarà una suggestione, ma testimoni dissero che la sera precedente all’omicidio, il 12 agosto, mentre Chiara e Alberto erano sicuramente in casa Poggi, le luci della casa della nonna di Chiara, sita nei dintorni di Garlasco, aveva le luci accese e che una macchina fosse parcheggiata nei pressi del cancello. La nonna di Chiara, all’epoca ancora in vita, si trovava in una casa di riposo e le chiavi erano nella disponibilità del papà di Chiara, che in quel momento era in vacanza con la moglie e il figlio Marco in Trentino, e di Chiara stessa che, lo ripetiamo, era sicuramente in casa con Alberto. Gli inquirenti hanno verificato chi si fosse introdotto in quella casa e per quale ragione? A noi non risulta.

C’è poi un’anomalia di fondo nella gestione delle indagini sul delitto di Garlasco, un’anomalia provocata da un cortocircuito nel coordinamento e nell’assegnazione delle competenze. Leggendo gli atti, soprattutto quelli relativi ai primissimi giorni, ma non esclusivamente quelli, ci si accorge che le indagini sono portate avanti su ben quattro binari paralleli: a sentire testimoni, fare riscontri e verifiche varie troviamo infatti i carabinieri della caserma di Garlasco, la Compagnia carabinieri di Vigevano, il Nucleo investigativo e la procura di Vigevano, nella persona della Pm Rosa Muscio, l’unica che avrebbe potuto – e dovuto – mettere ordine nelle fasi più calde dell’inchiesta.

Certo, si potrebbe pensare che più persone al lavoro sul caso avrebbero potuto in qualche modo ottenere migliori risultati in poco tempo. Purtroppo non è così, anzi, proprio il contrario. Una tale dispersione di competenze ha generato dei buchi purtroppo difficilmente sanabili. Vi chiederete quali, ve ne accenniamo uno, con la promessa di tornare in modo più approfondito sul tema: nei giorni successivi al delitto, vengono verificate tutte le chiamate in entrata e in uscita sia sul cellulare di Chiara, sia sul telefono fisso. Fatta questa verifica, vengono sentite tutte le persone – poche - che in quei giorni si erano messe in contatto con la vittima. A queste persone viene chiesto il motivo delle telefonate.

Tra queste persone, ce n’è una in particolare che finirà coinvolta nella vicenda, venendo indagata a fine 2016 e prosciolta dopo pochi mesi con formula piena. Sentito dai carabinieri del Nucleo investigativo di Pavia pochi giorni dopo l’omicidio, gli viene chiesto conto di tre chiamate sul telefono fisso di casa Poggi. Rileggendo oggi le giustificazioni date ai carabinieri, non può non sorgere il dubbio sulla loro coerenza [il perché ve lo diremo in uno dei prossimi articoli, ndr], eppure gli inquirenti non sembrano insospettirsi e tutto finisce lì, senza nemmeno un’annotazione di sintesi. A trovare interessanti le dichiarazioni di questa persona è però la Compagnia di Vigevano, che il 9 gennaio 2008, dopo aver esaminato le sit del RoNo (Reparto operativo Nucleo operativo, ndr), stende una relazione e la sottopone al pm Muscio, sollecitando una nuova convocazione per chiarire alcuni aspetti poco chiari o, meglio, delle evidenti incongruenze.

La pm ignora questa relazione per diversi mesi; nel frattempo – in estate – chiude le indagini e, dopo aver fatto l’avviso di chiusura indagini e la richiesta di rinvio a giudizio a carico di Alberto Stasi, il 4 ottobre 2008, quindi a indagini chiuse, convoca l’uomo, una sua parente e altre persone collegate al primo per approfondire cosa avessero fatto la mattina del 13 agosto 2007. Il perché di questa convocazione a indagini chiuse, resta un mistero.

Il giallo del posacenere sporco

Proseguiamo il nostro tour in questa galleria di cose non fatte o fatte male. Il catalogo è talmente ricco c’è l’imbarazzo della scelta. Per esempio, si è indagato su quel posacenere sporco ma privo dei mozziconi che venne ritrovato nella cucina di casa Poggi? Una minuzia? Un dettaglio di poco conto? Noi riteniamo di no. Chiara e Alberto non fumavano, l’unico fumatore di casa Poggi è il papà di Chiara, in quei giorni in Trentino. Certo, è possibile che qualcuno – ma non si è mai indagato per capire chi – abbia fatto visita a Chiara nei giorni precedenti l’omicidio e abbia fumato. Ma allora perché togliere i mozziconi e lasciare il posacenere sporco?

Chiara teneva molto all’ordine e alla pulizia, non è credibile che possa aver lasciato per diversi giorni un posacenere sporco in cucina. Dello stesso avviso è sua madre, Rita Preda, che condividendo una riflessione con il suo legale, Gianluigi Tizzoni (riflessione finita intercettata dagli inquirenti, ndr), ritiene molto strano che Chiara non l’avesse pulito e messo a posto.

Ma c’è un ulteriore dettaglio che avrebbe far dovuto drizzare le antenne agli inquirenti e che non fa che infittire il mistero: in sede di autopsia, tra i capelli di Chiara furono trovate forti tracce di nicotina, come se qualcuno le avesse fumato accanto la mattina stessa dell’uccisione. La domanda può sembrare piuttosto banale: chi ha fumato in quella cucina la mattina del 13 agosto 2007? Probabilmente non lo sapremo mai, dopotutto, per quanto ci risulta, il posacenere non è neanche stato repertato.

Le amicizie di Chiara Poggi e il mistero del secondo cellulare

Resta poi un buco nero gigantesco se parliamo della rete amicale di Chiara. Un terreno rimasto vergine, inspiegabilmente insondato. Il fatto che la ragazza non coltivasse le proprie amicizie non è del tutto vero. Sono diverse le sue amiche e colleghe che riferiscono di frequenti scambi di mail o di sms, eppure di tracce di questi scambi ne risultano davvero poche. È possibile? I testi hanno mentito? Se così fosse, è stata approfondita la questione? No. E allora, anche qui, la domanda viene spontanea: Se neanche le mail sono state ritrovate, come si può escludere che Chiara non conoscesse anche qualcuno che non è rientrato nell’alveo delle indagini?

Possibile che a quel “qualcuno” si riferisse la teste F. D. M.? La D. M. era la vicina di scrivania di Chiara alla Computer Sharing, la società dove la vittima lavorava prima del delitto. Sentita a sit (sommarie informazioni testimoniali, ndr) il 18 agosto e il 12 settembre del 2007, la D. M. - con cui Chiara di tanto in tanto scambiava confidenze - dice una cosa interessante: “Posso dire che aveva molti amici con i quali si intratteneva volentieri al telefono e nel mese di luglio mi aveva parlato di una festa a cui si sarebbe dovuta recare in una villa con una piscina che però non mi ricordo dove si trovasse”.

Oltre al fatto che di questi contatti telefonici non è stata trovata traccia, vale la pena sottolineare che nel mese di luglio Alberto Stasi era a Londra. Dunque con chi doveva andare a questa festa in piscina, Chiara? Non lo sappiamo. Nelle seconde sit, quelle di settembre, la collega aggiunge un tassello importante e, ad oggi, mai posizionato nel posto giusto del puzzle: “La Chiara possedeva sicuramente un cellulare marca Nokia di colore azzurro e se ricordo bene aveva un secondo cellulare di cui sconosco la marca e il modello, comunque apribile e di piccole dimensioni”.

Una descrizione precisa fatta da una persona che vedeva Chiara più o meno tutti i giorni infra-settimanali. Può essersi sbagliata? Il dettaglio di un secondo cellulare non è cosa da poco. Se davvero è esistito, dov’è finito? Per quale motivo ce l’aveva? Con chi parlava? Non lo sappiamo, gli inquirenti, anche in questo caso, sembrano essere stati distratti da altro.

Possibile che quel “qualcuno” rimasto fuori dalle indagini fosse la persona che – verosimilmente – ha accompagnato Chiara, nel maggio del 2007, a fare shopping in pausa pranzo in due diverse zone di Milano? Sì perché in effetti, indagando sulle sue transazioni bancarie, gli inquirenti hanno registrato nella giornata del 31 maggio 2007 un pagamento effettuato alle ore 12.23 presso un negozio di camicie in via Pattari. Un secondo pagamento, stavolta alle ore 12.56, viene effettuato in una libreria a Piazza Gramsci. In pratica dall’altra parte della città, dove il telefono di Chiara aggancia un minuto dopo la cella locale. Considerando che in tram occorrono circa 30 minuti per passare da una zona all’altra, è verosimile che si sia spostata in macchina. E considerando che a Milano ci arrivava sempre e solo con i mezzi pubblici, viene da chiedersi chi guidasse la macchina. Buco nero, ovviamente.

L’elenco di quelli che sono gli elementi rimasti in sospeso è lungo. Potremmo parlare – e lo faremo in altra sede – del dna maschile (non appartenente ad Alberto Stasi, ndr) trovato sotto le unghie di Chiara; potremmo parlare – e lo faremo - della bicicletta da donna e della testimonianza del teste Muschitta; potremmo parlare del fatto che nessuno quella mattina ha notato la presenza di Stasi che, secondo la versione che lo vuole colpevole, avrebbe dovuto percorrere il tratto di strada che separa casa Poggi dalla sua in bicicletta, a forte velocità, completamente ricoperto di sangue, con in mano ancora l’arma del delitto.

Potremmo dire tante cose. Potremmo continuare a sostenere che molti, troppi elementi sono stati esclusi sulla base del niente, che si è cucito addosso a Stasi un vestito d’infamia, che non esiste una pistola fumante né un movente logico, che le indagini – in questa vicenda – sono sembrate un casting cinematografico. Potremmo dire ancora molto, in effetti. E lo faremo.

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Parte 1: Delitto di Garlasco, cosa non torna
Parte 2: 23 minuti per un omicidio
Parte 3: Così Stasi è diventato il mostro perfetto

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