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Diciannove autunni

Dal 4 settembre, per 19 autunni, fino a quello del 2042, il traforo del Monte Bianco resterà chiuso per lavori di risanamento della volta. Una data che fa impressione per quanto è in là nel tempo

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Dal 4 settembre, per 19 autunni, fino a quello del 2042, il traforo del Monte Bianco resterà chiuso per lavori di risanamento della volta. Una data che fa impressione per quanto è in là nel tempo. Magari a quell'epoca avremo una base spaziale che comincerà a scavare tunnel sulla Luna. Le conseguenze saranno disastrose sia per il disagio, sia per i costi economici. Già ieri c'era una lunga fila di Tir da Ivrea fino alla galleria del Bianco visto che l'avvicinarsi della data di chiusura ha moltiplicato il commercio su gomma. Ma poi c'è il danno economico, che non potrà non essere rilevante, dato che si parla di 72 mesi complessivi di blocco che equivalgono a 6 anni: secondo la Confindustria della Valle d'Aosta la regione perderà il 9,8% del Pil, ma più in generale il Nord-Ovest subirà una flessione del 5,4%.

Ora, evitando polemiche, pensare che nell'Anno del Signore 2023 ci vogliano 19 autunni non per costruire, ma per risanare una galleria, lascia un po' stupiti. In Cina hanno impiegato 8 anni per mettere in piedi dal niente un ponte di 55 chilometri, quello che unisce Hong Kong, Zhuahi e Macao. E noi sul piano della tecnologia non abbiamo nulla da invidiare a Pechino. Anzi. Tanto che secondo il ministro delle Infrastrutture Salvini, per dare alla Sicilia il ponte di Messina non ci vorranno più di dieci anni.

Questioni tecniche, si dirà. Ma c'è una questione più politica che dovrebbe far riflettere tutti: il ritardo nelle infrastrutture che ha penalizzato e penalizza questo Paese non solo al Sud, ma anche al Nord. La chiusura ci fa scoprire, infatti, che non ci sono grandi alternative (a parte il Frejus che non basta e comunque è anch'esso malridotto) all'utilizzo del traforo del Bianco. Preclusa quella via costruita sessanta anni fa, l'Italia rischia di restare isolata da una delle direttrici principali del commercio europeo. Non si è costruito altro. Purtroppo siamo poveri di infrastrutture, è la triste realtà. E la colpa è di chi ha trasformato l'ambientalismo in una guerra al progresso e alla modernizzazione del territorio.

La vicenda Tav è esemplare. C'è un pezzo di sinistra (grillini e la sinistra estrema) sempre più egemone nel Pd, a cui le infrastrutture di ogni tipo non vanno a genio. Si tratti dell'Alta Velocità, dell'inceneritore di Roma o del Ponte sullo Stretto. Un mondo che tenta sempre di mettere il bastone tra le ruote del progresso o per la difesa dell'ambiente, o perché le grandi opere attirano criminalità e mazzette, o perché sono ritenute inutili. Le ragioni per contestare questa o quell'infrastruttura sono tante, l'importante per loro è dire comunque «no» (lo vedremo anche con i progetti finanziati dal Pnrr). Solo che poi i danni provocati dai «no», da una politica miope, ricadono sull'intera comunità. E ce ne rendiamo conto solo quando la Capitale è invasa dai rifiuti, o ci vogliono ore e ore di attesa per salire sul traghetto che collega Reggio Calabria a Messina o, ancora, quando la manutenzione del traforo del Bianco paralizza il commercio con mezza Europa.

A quel punto però è troppo tardi perché le grandi opere non si realizzano dall'oggi al domani, se per risanare una galleria costruita 60 anni fa, ci vogliono, appunto, 19 anni.

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