Il divisivo

Il Presidente del Consiglio e il suo fido scudiero Enrico Letta hanno un'indubbia capacità, quella di cambiare il significato delle parole a proprio piacimento e secondo i loro comodi.

Il divisivo

A mettere in fila i discorsi, le formule e i ragionamenti che hanno cadenzato l'elezione del nuovo Capo dello Stato ti accorgi che il Presidente del Consiglio e il suo fido scudiero Enrico Letta hanno un'indubbia capacità, quella di cambiare il significato delle parole a proprio piacimento e secondo i loro comodi. Erano partiti con l'idea un po' singolare che il nuovo Capo dello stato dovesse essere eletto dalla stessa maggioranza di governo come se fosse il garante dell'esecutivo e non del Parlamento o dell'unità del Paese. Una vera bestemmia istituzionale. E seguendo questa logica, utilizzata a piene mani, hanno posto veti su Silvio Berlusconi e su tutti gli altri candidati presentati dal centro-destra financo la Presidente del Senato Elisabetta Casellati, calando su di loro il terribile giudizio: sono «divisivi». Ora, però, cambiato il copione, mutano pure il significato delle parole. Rimuovono o fanno finta di non vedere un dato che è emerge sempre più: Mario Draghi tiene unita la maggioranza di governo come nessuno; ma, nel contempo, il suo nome è estremamente «divisivo» se si vuole trasporre la stessa maggioranza nell'elezione del Capo dello Stato.

A prima vista può sembrare una contraddizione, ma in realtà non lo è. Chi non è convinto della sua ascesa al Quirinale, infatti, è consapevole che un'altra personalità su cui costruire un nuovo governo non c'è. Per cui paradossalmente la sua opzione come Presidente della Repubblica, è la più divisiva di tutte: divide i partiti della maggioranza visto che a parole l'idea piace al Pd di Letta, un pò a Italia Viva di Renzi, ma le adesioni si fermano lì. Non basta. Elemento ancor più grave è che il nome di Draghi divide i partiti della maggioranza pure al loro interno: Letta che lo vuole, ha contro più di mezzo Pd; Italia Viva è divisa tra lui e Pierferdinando Casini; a Giancarlo Giorgetti va bene, mentre a Matteo Salvini no (almeno così dice); ed ancora, se a Luigi Di Maio piace, Giuseppe Conte storce la bocca; mentre Forza Italia, a parte uno-due ministri obnubilati dalla poltrona ministeriale, nella sua interezza vuole che resti a Palazzo Chigi. Per cui la candidatura di Draghi è talmente divisiva da essere uno strumento utilizzato per modificare gli equilibri all'interno dei partiti della maggioranza. Di converso, e per assurdo, è un partito d'opposizione, quello di Giorgia Meloni, che vorrebbe il trasloco del Premier sul Colle per aprire la strada alle elezioni anticipate. Con una motivazione surreale: visto che lo considerano incapace come Presidente del Consiglio lo vogliono promuovere Presidente della Repubblica. Viene da ridere.

Cosa dovrebbe fare a questo punto Draghi se fosse coerente? Seguire l'esempio del Cavaliere che sull'altare degli interessi del Paese ha rinunciato a candidarsi. Magari potrebbe anche indicare un nome. Sarebbe un contributo per sbloccare l'impasse che si è creata. E un grande atto di responsabilità, proprio di quella categoria di servitori dello Stato a cui Mario Draghi - semprechè il significato delle parole non cambi, appunto, a seconda del momento - si onora di appartenere.

E, invece, vorrei tanto sbagliarmi, ho l'impressione che l'ambizione lo porti a perseguire anche un'elezione all'ultimo voto: incontrare di soppiatto gli interlocutori in un palazzo di via Veneto non è da Premier. Quindi, la domanda è lecita: chi è il «divisivo»?

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