«E sempre allegri bisogna stare/ che il nostro pianger fa male al re/ fa male al ricco e al cardinale/ diventan tristi se noi piangiam».
Non si poteva piangere, ma non si poteva neppure ridere, ieri mattina, in una Milano devastata dall'acqua, al funerale di Dario Fo, insieme festa laica e festival letterario, tra politici e scrittori, cerimonia musicale e parlante, pittoresca, commovente, grottesca e contraddittoria, per ricordare e dire «Ciaooo Dario!» al più contraddittorio giullare e premio Nobel della storia italiana. Che festa è stata. E che Italia, che è.
Solo l'Italia conosce così tanti atei che vedono le chiese come simboli del potere religioso, tranne quando se ne possono usare le piazze per i loro funerali.
Solo l'Italia caccia la brigata Ebraica dal corteo del XXV Aprile e intona Bella ciao alle esequie di un ex repubblichino.
Solo in Italia la Tv di Stato fa saltare tutti i programmi radio e video per omaggiare uno che ha ospitato, e poi censurato, e poi cacciato, e poi re-invitato...
Erano tutti invitati ieri ai funerali di Dario Fo. E sono arrivati in migliaia. Si parte da un teatro - perché i simboli sono importanti -, lo Strehler, e si arriva in piazza Duomo, con la bara sul sagrato, posizionata perché i simboli hanno significati nascosti davanti al portone di una Cattedrale in cui Fo non ha mai voluto spiritualmente entrare, a sinistra della Galleria Vittorio Emanuele, monumento di quella borghesia che Fo, da perfetto borghese qual era, ha sempre detestato, e a destra di Palazzo Reale che, in quanto sede di re, ha sempre contestato. Tranne quelli di Svezia.
La festa e la farsa iniziano alle 11. Si esce dalla Camera ardente. Dentro è rimasta solo la famiglia e pochi intimi: attorno al feretro Jacopo Fo, con lo sciarpone rosso, Gad Lerner e Stefano Benni, che portano la bara a spalla fino all'auto blu. «Siete pronti? Camminiamo tutti allo stesso passo. Andiamo».
Si va. Tutti allo stesso passo: da Foro Bonaparte al Duomo, Cont duluri e cont lamenti. In testa, il sindaco di Milano Sala, quello di Torino Appendino, quello di Roma Raggi «Tieni duro, sindaco! Sono un attivista del Movimento. Ho conosciuto un tuo assessore alla marcia Perugia-Assisi... Posso fare un selfie?». E lei: «Andiamo avanti».
Si va avanti, tutti in marcia, verso largo Cairoli. Primo applauso. Poi parte la marcia funebre, suona la «Banda degli ottoni a scoppio». Ma non è una musica funebre, anzi. Clownesca e felliniana. La vita è teatro. La morte spettacolo. Ci sono due ragazze col naso finto. Cameramen e fotografi. Un clochard col trolley. Assessori. Gente comune. Quelli dell'Anpi con la bandiera. Zum zum, pam pam. Rosamunda... Pifferi, bombette e k-way.
Si imbocca via Dante che diluvia. Turisti, shopping e dehors. Jacopo Fo è rimasto indietro. E grida: «Andate avanti». A Cordusio parte un tema zigano di Goran Bregovic. Si canticchia, qualche orchestrale balla. Zara è quasi vuoto, via Orefici strapiena. Una ragazza continua imperterrita a soffiare bolle di sapone.
La vita va via in un soffio. Anche un funerale. Siamo già in piazza Duomo. L'odiata Mondadori del satrapo Berlusconi, sotto i portici, ha allestito tutte e cinque le vetrine con le insegne «Ciao Dario». Parte un altro applauso.
Siamo quasi al sagrato. Ci sono i militanti che salutano. Un cagnasso randagio inzuppato di pioggia. Un paio di carrozzelle, un sciancat instorpiat... Sono tutti fan di Fo. E tutti porasi fiol de Deo.
Sul sagrato non c'è Dio, e neppure un pretazzo. C'è un gazebo bianco. I necrofori dell'impresa San Siro depongono la bara in mezzo a due gendarmi, con i pennacchi e con le armi. Quanta bella gente. Davanti alla bara la piazza è strapiena di ombrelli e cartelli: «Io non sono un moderato». Dietro la bara c'è la famiglia, lo stato maggiore dei Cinque stelle Di Battista in cappotto blu, Di Maio e Casaleggio junior, Beppe Grillo in piumino. Roberto Vecchioni, a bassa voce, a un amico, dice: «C'è Saviano...». Saviano è appoggiato, indolente, a un sostegno del gazebo, poi lo chiamano davanti. «Fatti vedere».
La gente vuole vedere. Grida: «Chiudete gli ombrelli!». Non si può. La cerimonia, sotto il diluvio, è officiata da Carlo Petrini e Jacopo Fo. Ag stait pù in d'la pel d'la contentesa. Non stanno più nella pelle dalla contentezza di dire a tutti che bisogna ridere ed essere felici. «Oggi andate a casa e mangiate, ridete e se potete fate l'amore. È quello che avrebbe fatto lui», dice di lui l'amico Carlo Petrini. Narra aneddoti privati e ricordi pubblici. Poi, da scaltro gastronomo, il patron di Slowfood tira fuori dalla coppola la metafora enologica: «Tenere fuori la politica dall'arte di Fo sarebbe come fare un buon vino senza uva».
Dopo, inizia la sbronza ideologica. È l'orgoglio ritrovato di chiamarsi (ancora) «compagne e compagni». Tocca a Jacopo Fo parlare alle compagne e ai compagni. È interrotto dagli applausi e dalla commozione. Parla da figlio, e tutto gli è dovuto e perdonato. «Noi siamo un po' animisti. Non è che uno muore veramente, dài... Si fa per dire». La piazza ride e piange.
E ridendo piangendo si evoca, e par di sentirla da lontano, «Stringimi forte i polsi/ dentro le mani tue» che Dario Fo scrisse per Franca Rame. Fu la sigla di Canzonissima, anno 1962. Stretti i polsi, si liberano i pugni. E Jacopo Fo ringrazia tutti, a favore di piazza e di telecamera, col pugno chiuso alzato: «Grazie compagni».
Eh bon, tacabanda! E la banda attacca. «O partigiano, portami via. O bella, ciao! Bella, ciao! Bella, ciao, ciao, ciao!».
«Ciao, ciao». «Come stai?!». «Ah, sei venuto anche tu...». «Hai visto quanta bella gente». «Che bella festa...».
La festa è finita. Reinizia la vita.
È mezzogiorno e mezzo. C'è Lella Costa che ride con Vecchioni. C'è Travaglio con già la sigaretta in mano.
C'è l'archistar Boeri. C'è Renato Pozzetto che non ha voglia di ridere. C'è Grillo che parla con tutti. E c'è Dario Fo, nella bara, lì vicino quanti paradossi ti è toccato vivere e vedere oggi - che non ascolta più nessuno.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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