Coronavirus

Euro-suicidio per non cambiare uno stadio

Così come è spesso inspiegabile la pervicacia con cui certe squadre insistono ad attaccare esponendosi al contropiede avversario, è surreale l'ostinazione con cui la Uefa si sforza di ignorare la confusione che regna su questo Europeo itinerante

Euro-suicidio per non cambiare uno stadio

Così come è spesso inspiegabile la pervicacia con cui certe squadre insistono ad attaccare esponendosi al contropiede avversario, è surreale l'ostinazione con cui la Uefa si sforza di ignorare la confusione che regna su questo Europeo itinerante in balìa della variante Delta. Ma se i calciatori in campo possono sbagliare per eccesso di agonismo o stanchezza, alla base del caos geopolitico e sportivo attuale ci sono ottusità e interessi, che tengono in scacco decine di governi e milioni di persone.

Premesso che il calcio non è solo uno sport, ma un mastice sociale potentissimo e un generatore di emozioni insostituibile, occorre farsi una domanda: dopo sedici mesi di lockdown vari, milioni di morti e la più grande crisi economica dal dopoguerra, vale la pena rischiare una ricaduta globale nella pandemia perché nessuno vuole cambiare gli stadi dove si gioca? Perché questo sta accadendo e non serve essere epidemiologi per capirlo: gli assembramenti di tifosi causano recrudescenze di contagi. Era successo anche con le partite di Champions League di inizio 2020, quando Atalanta-Valencia e Liverpool-Atletico Madrid innescarono focolai devastanti, ma così come allora si insiste a fingere che il calcio sia una bolla magica, l'unica porzione del campo della realtà dove le regole della scienza vanno fuorigioco.

L'Europeo girovago era stato pensato prima del Covid. Impossibile cambiare formula, si è detto, rinviamo di dodici mesi. Peccato che l'organizzazione logistica di quest'anno - tamponi obbligatori, affluenza limitata, controlli - sia stata approntata prima della variante Delta. La quale colpisce anche i vaccinati (specie con una sola dose) ed ha il suo epicentro europeo di diffusione in Gran Bretagna, sede di parecchie partite tra le quali le semifinali e la finale. Il che porta a una semplice conclusione: l'organizzazione doveva essere ulteriormente modificata settimane fa, o almeno va cambiata ora. Semplice per tutti, non per la Uefa.

In Gran Bretagna, dove le dosi somministrate sono 77 milioni e quasi 33 milioni i cittadini già immuni (quasi il 50% della popolazione), si sono avuti 22.868 nuovi casi in 24 ore; duemila scozzesi si sono contagiati allo stadio o nei pub; da San Pietroburgo, nella Russia fuori dalla Ue ma nel pieno della terza (o quarta) ondata, sono rientrati in Finlandia almeno 120 positivi; altri positivi sulle tribune a Copenaghen. Vuol dire che le misure di contenimento non bastano con la Delta e che è un harakiri disputare le restanti partite in Paesi dove la variante è aggressiva. Un harakiri sanitario e sportivo, perché dietro i tifosi in festa, i cori, la birra e gli abbracci si allunga l'ombra del ritorno delle restrizioni, della conta degli ospedalizzati. E nessuna gioia può essere piena con questo retropensiero. La realtà è un tackle a gamba tesa: nonostante la nostra voglia di normalità, purtroppo non è ancora tempo di vivere spensierati. Lo dicono le autorità sanitarie di tutto il mondo: servono buon senso e responsabilità quando si allentano le misure. Pretenderle da migliaia di tifosi ammassati e giustamente in delirio per una vittoria è semplicemente utopia. Quando Mario Draghi e Angela Merkel, poco più di una settimana fa, criticavano l'idea di disputare le finali in un Paese dove la curva dei contagi era in salita, la Uefa ha fatto catenaccio e il governo britannico, con un fallo di reazione, ha aumentato la capienza di Wembley. Una gestione del problema responsabile e ponderata come una zuffa da bar su un gol annullato. Ieri invece Londra ha invitato i suoi tifosi a non andare in Italia, perché sa bene che una trasferta, con tanto di cene e bevute nei locali romani e nell'impossibilità di rispettare la quarantena prevista, è una roulette russa. E rischierebbe di trasformarsi in una bomba virale in un Paese come il nostro, con solo 18 milioni di immuni totali.

Gli unici che ancora infilano la testa sotto l'erba, sotto gli euro e sotto le sterline sono i burocrati dell'Uefa, che «devono» ai club inglesi il naufragio della SuperLega e che giocano la loro miope partita politica al di là della Brexit e dell'interesse generale.

Ecco perché occorre una presa di posizione più netta e unanime da parte dell'Unione europea, che non può permettersi di rischiare una ricaduta continentale per non scontentare Ceferin e il suo comitato di affari. A Roma, a Budapest da Orbàn, a Madrid: giocate le finali dove volete. Ma non costringete il calcio europeo a celebrare il suo apogeo in uno stadio di Wembley circondato dai contagi.

Fareste un torto al calcio e a Wembley stesso, che rischia di passare alla storia come monumento alla stupidità di una generazione che è andata incontro all'ennesima ondata facendo la ola.

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