
S'ode a destra uno squillo di tromba: finalmente la separazione delle carriere dei magistrati diventa legge! A sinistra risponde uno squillo: è una svolta autoritaria, il governo vuole controllare i magistrati! Il voto di ieri in Senato, proprio nel bel mezzo del "pasticciaccio" di Palazzo Marino, fa ovviamente divampare l'ennesima battaglia della "guerra dei trent'anni" tra politica e magistratura. Si tratta però di una guerra ormai anacronistica. Vediamo perché. Nelle due più antiche e grandi democrazie occidentali la magistratura risponde direttamente o indirettamente al popolo. Negli Usa direttamente: la carica di procuratore distrettuale è elettiva e, dunque, scelta direttamente dai cittadini. In Francia indirettamente: perché il magistrato inquirente dipende dall'esecutivo, che è comunque figlio di un voto popolare.
In sostanza, nelle nazioni madri delle democrazia moderne che hanno scritto, con Montesquieu ed Hamilton, i nostri più raffinati pensieri costituzionali, la magistratura è in ogni caso vista come "dipendente" dalla sovranità del popolo.
È paradossale, ma nel dibattito italiano raramente lo si mette in luce: il nostro sistema-giustizia è "anomalo" rispetto a quello delle altre democrazie occidentali. Abbiamo costruito un modello, unico al mondo, basato sul cosiddetto "autocontrollo della magistratura". Se ne conoscono le ragioni: l'esperienza del fascismo indusse i costituenti a maneggiare con cura la materia. E non si può escludere che sia stata una scelta saggia. Ma una cosa è certa: se si vuole salvaguardare tale sistema e, nello stesso tempo, rimanere nell'alveo delle democrazie liberali, occorre impedire che il potere giudiziario risulti totalmente autoreferenziale (come oggi è) rispetto alla sovranità popolare. E sono quindi necessarie significative correzioni. Una di queste è certamente la separazione delle carriere.
Avere due Csm come in Francia, non significa affatto dare il via libera al controllo dell'esecutivo (o forse si vuole sostenere che Parigi sia la capitale di un sistema autoritario?). Significa invece impedire che l'intera magistratura viva se stessa come un corposo "contropotere" (come oggi è), abilitato a sfidare apertamente la stessa sovranità delle assemblee elettive. Sia chiaro: la separazione delle carriere non può risolvere da sola l'anomalia italiana. Soprattutto per un motivo oggettivo: fin dagli ultimi decenni del secolo scorso la nuova complessità della società italiana, si è scontrata con l'implosione del vecchio sistema dei partiti, facendo sì che la sede di soluzione di numerosi conflitti attenenti ai diritti sociali e civili si spostasse di fatto dal politico al giudiziario. Tale fenomeno ha finito per investire la magistratura di una funzione di "supplenza" del potere. La qual cosa, sia chiaro, non le può certo essere rimproverata. Ma sarebbe altrettanto miope non riconoscere come ciò l'abbia condotta a un'oggettiva "invasione di campo". Il giudiziario è trascolorato nel legislativo e, in definitiva, nel politico, come anche la recente inchiesta di Milano dimostra. Alimentando così la narrazione (e la prassi) di una sorta di contro-potere il cui compito sarebbe quello di opporre una permanente "resistenza" alla politica. Perciò la separazione delle carriere è ormai diventata la metafora di un altro obiettivo storico: il ritorno dell'Italia a una normale separazione dei poteri.
Ma perché, allora, la politica si divide? Tale obiettivo non dovrebbe essere condiviso anche dalla sinistra, come ieri il voto di Calenda ha evocato? In fondo, il vero problema di una democrazia liberale è che nessun potere, né quello politico né quello giudiziario, risulti "fuori controllo", essendo entrambi "limitati" dal primato della "sovranità popolare". Perciò forse ci vorrebbe un "compromesso storico" tra tutte le parti in campo, finalmente capaci di uscire dalle proprie vecchie gabbie mentali. Purtroppo, però, non è questa l'aria che tira. Al ragionamento si preferisce sempre lo scontro ideologico.
Eppure l'Italia ha assolutamente bisogno di chiudere "la guerra dei trent'anni". Per evitare che una delle più grandi nazioni del mondo sia ridotta a uno scontro permanente tra poteri, degno solo di un Paese giuridicamente sottosviluppato.