Scena del crimine

Quattro vittime, due testimoni scomodi: il lago dei misteri

Nel 1933 il paese di Alleghe fece da sfondo a due suicidi. Nel 1946 nello stesso luogo due coniugi vennero uccisi a colpi di pistola. Venticinque anni dopo le prime morti i tre casi vennero messi in relazione e riconosciuti come omicidi. Colpevoli di quei delitti alcuni membri della famiglia Da Tos, proprietaria dell'Albergo Centrale

Quattro vittime, due testimoni scomodi: il lago dei misteri

Tre episodi di morte avvenuti ad Alleghe in provincia di Belluno, tutti legati da un unico filo rosso, che per anni sarebbe rimasto nascosto come polvere sotto un tappeto di paura e omertà. Quattro le vittime, due delle quali inizialmente considerate suicide. Poi l'arrivo di un giornalista rimescolò le carte sul tavolo degli inquirenti e al centro del mirino finì parte della famiglia Da Tos, molto nota in paese perché proprietaria di una macelleria e dell'Albergo Centrale. Fiore Da Tos, il capofamiglia, aveva sposato Elvira Riva e dal loro matrimonio erano nati due figli, Aldo e Adelina. La ragazza si era unita a Pietro De Biasio, altro protagonista di questa storia, mentre Aldo prese in sposa Carolina Finazzer, una delle vittime. È all'interno di questa famiglia che, secondo quanto appurato poi dai giudici, nacquero i tre delitti. Ma, nonostante tre gradi di giudizio accolsero la tesi della colpevolezza della famiglia, negli anni successivi, sono emerse tesi innocentiste, contraddizioni e perplessità sulle indagini del tempo.

Duplice omicidio ad Alleghe

Tutto iniziò all'alba del 18 novembre 1946, quando Angelo De Toffol, il fruttivendolo di Alleghe, uscì di casa e passò per il vicolo La Voi. Lì scoprì il corpo senza vita di Luigia De Toni e, poco dopo, a 30 metri dal cadavere della donna, venne trovato anche il marito, Luigi Del Monego. I coniugi, gestori del locale Enal, erano stati uccisi con dei colpi di arma da fuoco. Diverse persone testimoniarono di aver sentito, durante la notte, dei colpi di pistola ma, in quel periodo, non era un avvenimento infrequente.

Secondo la prima ricostruzione, marito e moglie chiusero il locale alle 2.30 e si avviarono verso la loro casa, distante in linea d'aria 100 metri. Ma qualcuno li sorprese mentre risalivano il vicolo La Voi e li uccise. Sul luogo del delitto non venne trovata la borsetta nera di Luigia De Toni, che probabilmente conteneva l'incasso di quel giorno e forse anche dei giorni precedenti. Per questo, inizialmente, si parlò di delitto a scopo di rapina.

Così i carabinieri ricostruirono i movimenti dei presenti all'Enal quella sera, interrogarono tutti e perquisirono le case dei sospetti, alla ricerca dell'arma che aveva sparato. Analizzando la scena del crimine, emersero inoltre nell'orto attraversato dagli assassini in fuga delle orme lasciate da scarpe con suola di gomma. Si arrivò a Luigi Veroncai, un pregiudicato condannato per omicidio e collaborazionismo coi tedeschi ed evaso, che aveva nelle sue disponibilità una pistola compatibile con l'arma del duplice delitto. Ma l'uomo, nel 1948, venne assolto con formula piena: giudicato non colpevole, per non aver commesso il fatto.

Le indagini ripartirono da capo e gli anni successivi trascorsero tra interrogatori e nuove piste mai confermate. Nel 1952 arrivò ad Alleghe il giornalista Sergio Saviane e iniziò a indagare sulla vicenda, spinto anche dalle voci che in paese parlavano di altri omicidi.

"La Montelepre del Nord"

"La mattina del 18 novembre del 1946 Alleghe restò senza pane". Inizia così l'articolo scritto nel 1952 da Sergio Saviane, che definì Alleghe "La Montelepre del Nord", paragonandola al paese siciliano del bandito Giuliano, noto per l'omertà e la paura delle persone del luogo. Saviane sottolineò come, a distanza di quasi sei anni dal delitto dei coniugi Del Monego, l'assassino non avesse ancora un volto e il paese fosse parte di "un altro macabro segreto".

Saviane raccontava di un paese prigioniero della paura, dove "negli occhi di tutti sembra di leggere il nome dell'assassino, ma nessuno si decide a svelarlo", perché teme di "raccattare la propria morte fuori dell'uscio di casa". In paese, raccontò Saviane, le persone erano "terrorizzate" e quindi il delitto non era stato risolto prima a causa dell'omertà che copriva Alleghe. Il giornalista, nel suo articolo, raccontò una storia di assassini, di un possibile "mostro" che si aggirava ad Alleghe e che, oltre ai coniugi Del Monego, avrebbe fatto altre vittime. Non solo. La morte di Luigia e Luigi, scrive Saviane, sarebbe stata solo mascherata da rapina, ma in realtà nascondeva un altro movente. I coniugi, spiega il giornalista, sarebbero stati uccisi perché anni prima avrebbero visto qualcosa che non dovevano vedere. "Il mostro, in poche parole, si sarebbe sbarazzato, con la semplice attenuante della rapina (centomilalire circa e alcuni valori in gioie che la Gigia teneva sempre con sé per abitudine), di ben due testimoni in un colpo solo", si legge nell'articolo del 1952.

Per quell'articolo Saviane venne denunciato per diffamazione dalla famiglia Da Tos e venne condannato. Il verbale di condanna, racconta Toni Sirena nel libro I delitti di Alleghe - Le verità oscurate, arrivò sul tavolo del giudice istruttore Tardio, che iniziò a sospettare che in paese si sapesse qualcosa su quel duplice omicidio. Per questo incaricò la Procura Generale di Belluno di svolgere le indagini e saltò fuori il nome di Corona Valt, che si rivelerà una testimone decisiva. Alla donna arrivò anche il carabiniere Ezio Cesca, che si finse un operaio e iniziò una relazione con una persona vicina a Corona, la quale a sua volta fece le prime rivelazioni. La Valt, a quel punto, disse di aver visto delle ombre la sera dell'omicidio di Luigia De Toni e Luigi Del Monego e, l'8 luglio del 1958, venne arrestato Giuseppe Gasperin, sospettato di aver partecipato all'agguato sulla base delle dichiarazioni della Valt.

Una volta fermato, Giuseppe Gasperin fece le prime ammissioni, rivelando il nome di Pietro Sponga che veniva indicato come "organizzatore ed esecutore del delitto". L'uomo era morto da tempo, ma si scoprì che nel periodo del duplice delitto era all'estero, come dimostrarono i timbri. Così l'11 luglio Gasperin cambiò versione e raccontò che la De Toni e il Del Monego erano stati testimoni di un avvenimento successo anni prima. Il giorno successivo vennero arrestati anche Aldo Da Tos e Pietro De Biasio, che confessarono di aver partecipato al delitto. "Gasperin, individuato come uno degli assassini dei Del Monego - si legge in un numero dell'Unità del 1962 - fa dapprima il nome di un complice. Un nome solo: quello di Aldo Da Tos". In seguito "la confessione di Gasperin si amplifica. Introduce un nuovo personaggio: quello del cognato di Aldo Da Tos, Pietro De Biasio e, prontamente, anche Da Tos parla di De Biasio".

Due scomodi testimoni

Ma di cosa sarebbero stati testimoni Luigia De Toni e Luigi Del Monego? Secondo la tesi di Saviane, che divenne quella dei carabinieri e che venne infine confermata dai giudici, i coniugi avevano sentito nel 1933 i passi di Aldo Da Tos, che trasportava al lago il corpo della moglie morta. La vittima "fu portata (e questo è il punto centrale della vicenda) nel lago la stessa notte che i coniugi Gigi e Gigia Del Monego, allora solo fidanzati, si erano momentaneamente richiusi dentro casa Del Monego per i saluti di commiato dopo la festa di Massarè - si legge nell'articolo di Saviane del 1952 - Furono loro infatti a udire i passi pesanti di una persona diretta verso il lago".

Il giorno dopo, il 4 dicembre del 1933, il corpo senza vita di Carolina Finazzer, moglie di Aldo Da Tos, venne trovato nelle acque gelate del lago. Quella mattina due bambini fecero la macabra scoperta: videro spuntare qualcosa in un punto del lago in cui il ghiaccio aveva lasciato posto all'acqua gelida e diedero l'allarme. Intervennero i carabinieri che, come riportato nel libro di Toni Sirena I delitti di Alleghe. Le verità oscurate, riferirono: "Ora imprecisata stanotte Finazzer Carolina [...] moglie Da Tos Aldo di Fiore uscita di casa con sola camicia notte et soprabito et scarpe da camera gettavasi lago Alleghe scopo suicidio, trovandovi morte per asfissia affogo". Suicidio, sentenziò anche il dottor Giovanni Case, il medico condotto del tempo.

Ma il 20 dicembre il fratello della vittima presentò un esposto alla procura, convinto che Carolina fosse stata uccisa. Venne ordinata la riesumazione della salma, ma la perizia confermò che si trattò di suicidio e la morte della donna venne archiviata come tale. Ritornerà a galla solo molti anni dopo, prima nell'articolo di Saviane del 1952, poi nel 1958, quando Aldo Da Tos confessò di aver ucciso la moglie. "Ci spogliammo e andammo a letto e io pretesi a questo punto di possederla - si legge in uno stralcio dell'interrogatorio a Da Tos risalente al luglio 1958, riportato nel libro di Toni Sirena -la immobilizzai e preso un guanciale glielo appoggiai con forza sulla faccia e, tentando di sfogarmi, vidi che essa reagiva, poi sempre meno constatai la sua resistenza, a questo punto [...] tolsi il guanciale e m'accorsi che non dava più segni di vita, mi accertai meglio e mi accorsi che era deceduta (erano circa le 22.30)". Poi, l'uomo disse di essersi caricato il corpo della moglie sulle spalle e essere andato "verso il lago passando davanti alla casa Luigi Del Monego".

Ma successivamente Aldo Da Tos cambiò versione, indicando un nuovo movente. Disse infatti che la moglie Carolina era stata uccisa perché era venuta a conoscenza, durante il viaggio di nozze di una terribile verità: l'omicidio della cameriera Emma De Ventura per mano di Adelina Da Tos. La donna però voleva rivelare tutto, forse alla madre che aveva contattato qualche giorno prima della sua morte. Aldo aggiunse anche, nel gennaio del 1949, che a uccidere la moglie non era stato lui, ma il cognato Pietro Di Biasio, alla presenza sua e di Adelina. La versione di Da Tos venne ritenuta credibile dai giudici. Infatti, secondo la ricostruzione della Corte d'Assise, la domenica sera, quando Aldo e Carolina salirono nella camera dell'Albergo Centrale per andare a dormire, Adelina e Pietro li raggiunsero e si avventarono sulla donna. Pietro la strangolò, mentre Aldo e Adelina la tenevano ferma. Infine gettarono il corpo nel lago.

La morte della cameriera Emma

Carolina quindi, stando alla ricostruzione fatta dai giudici, venne uccisa perché sapeva che la cameriera dell'Albergo Centrale, Emma De Ventura, non si era suicidata qualche mese prima, ma era stata assassinata.

Emma morì il 9 maggio del 1933. Quella mattina la ragazza si era alzata apparentemente serena: qualcuno la sentì cantare e qualcun altro la vide uscire al balcone di una delle camere che stava sistemando. Non vedendola tornare, Adelina Da Tos andò a cercarla al piano superiore e la chiamò senza ottenere risposta. Emma giaceva a terra, sul pavimento della stanza numero 6, in una pozza di sangue. La gola tagliata da un rasoio. I medici del tempo conclusero per il suicidio: Emma avrebbe ingerito il contenuto di una bottiglietta di tintura di iodio (ritrovata vuota nella stanza) e, non riuscendo a sopportare il dolore, si sarebbe tagliata la gola con un rasoio. Due giorni dopo però, i familiari della ragazza, non credendo all'ipotesi di un suicidio, presentarono un esposto in procura, contestando la versione ufficiale e sostenendo che Emma non aveva nessun motivo per togliersi la vita. Partirono le indagini che però non portarono a nulla. E la morte di Emma venne archiviata come suicidio. Dopo pochi mesi sarebbe successa la stessa cosa con Carolina.

Nel 1952 la storia di Emma finì al centro dell'articolo di Sergio Saviane, che la mise in relazione con la morte di Carolina e con l'omicidio dei Del Monego. E anche il suicidio di Emma finì tra i casi su cui gli inquirenti tornano a indagare. Quando venne fermato, Aldo Da Tos chiamò in causa anche la sorella, che venne arrestata il 3 settembre 1958. Adelina Da Tos, due giorni dopo il suo arresto, confessò di aver ucciso la cameriera dell'Albergo Centrale, Emma De Ventura. Secondo la ricostruzione fatta dai giudici nel 1960, Adelina sorprese Emma alle spalle, entrando nella camera numero 6, e le tagliò la gola con il rasoio. Poi versò l'intero contenuto della boccetta di tintura di iodio nell'esofago, attraverso il taglio che aveva appena praticato. Infine si lavò la mani e scese al piano inferiore per dare l'allarme.

Perché Adelina uccise Emma? Gelosia, sostennero gli inquirenti. Nel 1933 Adelina aveva rivelato di aver licenziato Emma dopo averla sorpresa insieme al cognato Luigi De Zolt, che oltre a negare il fatto querelò la donna per diffamazione. Ma nel 1958, quando Adelina confessò di aver ucciso la cameriera, cambiò versione, ammettendo di essere stata preda dell'ira per averla sorpresa in realtà con il marito Pietro De Biasio. Ma c'è un'altra ipotesi: Emma potrebbe essere stata uccisa perché aveva scoperto "qualche fatto riguardante la famiglia Da Tos che doveva rimanere segreto per motivi di onore".

Il fatto il questione sarebbe il ritorno di un presunto figlio illegittimo di Elvira Riva, ucciso perché avrebbe preteso la sua parte di eredità famigliare. Questo possibile movente però è solo accennato nella sentenza di primo grado, che parla di incertezza delle motivazioni che hanno spinto la donna a uccidere. Ma la confessione di Adelina, ritrattata poco tempo dopo, convincerà i giudici della colpevolezza della donna.

Le condanne e l'altra verità

Il processo di primo grado si aprì nel marzo del 1960 presso la Corte d'Assise di Belluno. L'8 giugno dello stesso anno, i giudici emisero la sentenza: "Dopo otto ore e 50 minuti di camera di consiglio - si legge nel numero dell'Unità del tempo- la Corte d'Assise di Belluno [...] ha emesso la sentenza sui delitti di Alleghe".

Tutti vennero ritenuti colpevoli: Aldo e Adelina Da Tos e Pietro De Biasio vennero condannati all'ergastolo, mentre Giuseppe Gasperin a 30 anni di carcere, di cui 6 condonati. Secondo i giudici, come riportò l'Unità, "il 9 maggio 1933 Emma De Ventura, la giovane cameriera dell'albergo Centrale, è stata scannata da Adelina Da Tos, in un impeto di gelosia, e 9 mesi più tardi la stessa Adelina assieme al marito Pietro De Biasio e al fratello Aldo Da Tos strozzava la moglie di quest'ultimo, Carolina Finazzer, perché non rivelasse il terribile segreto della famiglia. Tredici anni dopo, infine, Pietro De Biasio e Aldo Da Tos assoldavano Giuseppe Gasperin come sicario e la notte del 17 novembre 1946 uccidevano i coniugi Luigi e Luigia Del Monego che avevano minacciato di rivelare la verità sulla fine della Finazzer".

Aldo, Adelina e Pietro vennero condannati per l'omicidio di Carolina Finazzer. Aldo e Pietro, insieme a Giuseppe Gasperin, il sicario, furono ritenuti colpevoli anche del duplice omicidio dei coniugi Del Monego. Il delitto di Emma De Ventura, invece, era ormai caduto in prescrizione.

Il 28 febbraio del 1962, la Corte d'Assise d'Appello di Venezia confermò la sentenza: "Tutto è rimasto, dunque, come prima- scriveva l'Unità - Pietro De Biasio, Aldo e Adelina Da Tos hanno avuto riconfermato l'ergastolo, Giuseppe Gasperin trent'anni, di cui sei condonati". Infine, il 4 febbraio 1964, la Corte di Cassazione rigettò i ricorsi presentati dagli imputati e la Corte Suprema non ammise l'istanza di revisione presentata successivamente da De Biasio. I membri della famiglia Da Tos e il marito di Adelina ritrattarono le proprie confessioni, continuando a professarsi innocenti. Pietro De Biasio morì nel marzo 1969, dopo essere stato portato nell'infermeria del carcere, Giuseppe Gasperin e Aldo Da Tos morirono entrambi in carcere, rispettivamente nel 1974 e nel 1988, mentre Adelina uscì dal carcere e morì nel 1988.

Tre gradi di giudizio hanno confermato che le morti dei coniugi del Monego, della cameriera De Ventura e della Finazzer sono stati degli omicidi. Colpevoli, con sentenza definitiva, Giuseppe Gasperin, Pietro De Biasio, Aldo e Adelina Da Tos. Ma negli anni sono stati numerosi i dubbi venuti alla luce e le contestazioni, che hanno fatto emergere altre tesi. A confutare quella esposta da Sergio Saviane è stato anche il giornalista Pietro Ruo che, nel libro I segreti del Lago - L'altra verità sui fatti di Alleghe, parlò di "parecchie contraddizioni" che sarebbero contenute nelle sentenze di condanna. Ruo diede spazio anche alla tesi innocentista sostenuta dall'allora parroco di Alleghe, Angelo Strim, e dal dottor Giovanni Case, le cui perizie parlarono di suicidio per i casi di Emma De Ventua e Carolina Finazze. "Furono veramente colpevoli i Da Tos e il De Biasio? - si chiese Ruo, come riporta Misteri d'Italia - Oppure sono innocenti condannati ingiustamente? O ancora, non tutti furono colpevoli in egual misura? Il dubbio, tutto sommato, dopo tanti anni, rimane".

Successivamente, anche il giornalista bellunese Toni Sirena, scrisse due libri sui casi di Alleghe, attingendo ai documenti giudiziari del tempo: I delitti di Alleghe - Le verità oscurate e La montagna assassina - Innocenti e colpevoli dei "delitti" di Alleghe. Sirena indagò sulle morti del 1933 e del 1946, recuperando gli interrogatori del tempo e i testi delle sentenze di condanna, facendo emergere dubbi e incongruenze. Sirena parla di "pesanti errori nelle indagini" del tempo e di una verità probabilmente diversa da quella riconosciuta dai giudici, che diedero piena fiducia alle confessioni degli imputati. Questi però cambiarono più volte versione e ritrattarono le proprie ammissioni, denunciando di aver subito interrogatori estenuanti e di essere stati indotti a confessare.

"In sintesi - conclude nel libro I delitti di Alleghe - Le verità oscurate - mancano i riscontri, le testimonianze chiave sono inattendibili, mancano i moventi".

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