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I giustizialisti a colpi di allusioni

Allusioni e puntini di sospensione: giustizialisti ispirati a Le Carré

I giustizialisti a colpi di allusioni

Un'arguta giornalista, per sedare l'ansia da onnipotenza della categoria, è solita ripetere che «non operiamo mica a cuore aperto». Secca dirlo, ma non ha del tutto ragione a giudicare dai titoli di oggi e a leggere certe ricostruzioni del caso Imane Fadil che paiono scritte da un John le Carré sotto acido. Quando serve i giornalisti fanno autopsie, espletano analisi tossicologiche, seppur senza provette. E, alla bisogna, emettono sentenze con una rapidità che i più efficienti tra i tribunali italiani possono solo sognare. Il tutto con un'insostenibile leggerezza, purtroppo. Di fronte al caso di Imane Fadil che, a prescindere da quale sia la verità, è pur sempre la storia di una morte tragica che merita rispetto, si è scatenato il consueto circo dei garantisti con l'elastico. Nessuno nega che la storia di questa morte richieda un'indagine che spazzi via ogni dubbio, né che l'incrocio tra la vita della modella e quella di una preda mediaticamente prelibata come Silvio Berlusconi possa accendere l'interesse. Ma, una volta di più, a colpire è come la storia viene presentata. La chiave è nella tempesta di allusioni, di coincidenze suggerite, di suggestioni plausibili che vengono evocate. Soprattutto quando si incarnano nel meschino espediente dei puntini di sospensione, ultima spiaggia della bassezza espressiva. Emblematico un titolo del sito Huffington Post che informa i suoi lettori che la povera Imane è stata uccisa (fatto in realtà ancora da accertare, sebbene ci sia un'inchiesta che indaga in questa direzione) «con modalità che ricordano i metodi russi...». Capito lettori? A buon intenditor, tanti puntini. E pazienza se il centro analisi che ha esaminato i tessuti prelevati sul corpo della modella ha poi smentito di aver fatto alcuna misurazione sulla radioattività, che sarebbe la causa evocata del presunto avvelenamento, che resta solo un'ipotesi. Scavare, mettere insieme i pezzi, porsi domande, sarebbe normale di fronte a una storia del genere. Ma non sono i sospetti a colpire, quanto le allusioni, gli spazi bianchi spacciati come inquietanti certezze. Perfino Repubblica, il quotidiano che più di ogni altro ha sceneggiato il Bunga Bunga, procede con il rispetto che si deve se non altro al tormento di Imane Fadil. La parte del racconto della ragazza che in tribunale ne ha fiaccato la credibilità («in quelle serate ho visto Lucifero. Questo signore fa parte di una setta che evoca il demonio») per Il Fatto quotidiano diventa un titolo da prima pagina: «I misteri di Imane: Ad Arcore ho visto il diavolo». E un giornalista economico come Paolo Madron sentenzia che la storia è «un nuovo caso Regeni».

Facendo così del senso della misura la seconda vittima di questa vicenda.

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