I "Monuments men" d'Italia che salvano l'arte dall'Isis

Siti e tesori dell'antichità vengono distrutti dalla furia islamista. Per proteggerli una ventina di archeologi rischia la vita: "Ma ne vale la pena, è in gioco la Storia"

I "Monuments men" d'Italia che salvano l'arte dall'Isis

Tell Barri, governatorato di Al-Asakah, là dove il «becco d'anatra» siriano, a nord est, s'incunea nel Kurdistan iracheno. Un «tell», una collinetta, un calvo monticolo di una trentina di metri dalla cui sommità lo sguardo spazia sull'immenso pianoro che anticipa Mosul, l'antica Ninive. Ci andai una trentina d'anni fa, quando a Damasco regnava la «volpe del deserto», Hafez Al Assad, e a Bagdad signoreggiava Saddam Hussein. Un tempo in cui la spada della democrazia non aveva ancora innescato il bagno di sangue che dalla presa di Bagdad sconvolge quelle latitudini e in cui si circolava con la stessa sicurezza con cui oggi andreste da Rapallo a Santa Margherita.

A Tell Barri l'archeologo Paolo Emilio Pecorella, napoletano di nascita, fiorentino d'adozione, vagava all'inizio degli anni Ottanta tra le vestigia del palazzo di Tukulti-Ninurta II, sovrano neo assiro (890-884 a.C.) e i fantasmi di Babilonesi, Persiani, Seleucidi che si erano succeduti in Mesopotamia lasciando, strato su strato, tracce del loro passaggio. Trent'anni dopo, al tempo dei tagliagole dell'Isis e all'ombra delle loro bandiere corsare, noi italiani siamo ancora da quelle parti. Un manipolo di temerari che opera al confine del Califfato, animati dallo spirito di una missione impossibile: salvare il patrimonio artistico iracheno dalla furia belluina dei jihadisti dello Stato islamico. Sono i «Monuments men» italiani, un gruppo di venti (talvolta venticinque) specialisti guidati da Daniele Morandi, professore di Archeologia del Vicino Oriente all'università di Udine e direttore del progetto «Terre di Ninive». Gente che ha deciso di correre qualche rischio («ma su di noi vegliano i peshmerga del Kurdistan iracheno») operando talvolta a soli dieci chilometri dal «territorio Comanche». Perché? Ma perché ne vale la pena. Perché qui in ballo non c'è solo la storia, la cultura di una regione, ma un pezzo fondamentale della Storia di tutto il genere umano. Ecco dunque il senso della missione di Morandi e dei suoi: identificare, censire, catalogare. Prima che sia troppo tardi. Finora, i siti censiti e catalogati in questa regione ancora così poco esplorata sono 600. E questo solo per quel che riguarda il patrimonio di un'area a cavallo tra le province di Ninive e Dahuk.

Prima il museo archeologico di Mosul, poi il sito di Hatra e quello di Nimrud. Ora è il turno di Dur-Sharrukin, la «Fortezza di Sargon», l'odierna Khorsabad, che alla fine dell'VIII secolo a.C. divenne capitale dell'impero assiro prima di Ninive. Il rullo compressore degli inturbantati di Abu Bakr al-Baghdadi non si ferma. «Un progetto di pulizia etnica in piena regola», lo definisce il professor Morandi, rientrato in Italia da un paio di settimane. «Una faccenda che non ha nulla di religioso. Una iconoclastia di tipo politico, ideologico, piuttosto». Come i serbi contro i musulmani nella valle della Drina, al tempo della dissoluzione della Jugoslavia. Come i Croati quando distrussero a cannonate lo «Stari Most», il ponte ottomano fatto costruire da Solimano il Magnifico a Mostar. O Caracalla che fece distruggere tutte le immagini del fratello Geta. Una damnatio memoriae delinquenziale, metodica, spietata. «Un progetto che prevede lo sradicamento dall'Iraq del nord di tutte le comunità non islamiche: i cristiani gli assiri e i caldei», dice Morandi.

Ma anche un modo per finanziare il Califfato arraffando e vendendo sottobanco, all'Occidente, il prodotto delle razzie. Come hanno fatto a Nimrud, dove sorgeva il palazzo del re assiro Sur-Nazir-Abal II del IX secolo a.C. I rilievi in alabastrino di Nimrud non ci sono più. I banditi dell'Isis li hanno fatti in piccoli pezzi, in modo da veicolarli più facilmente e venderli sul mercato clandestino.

La pista battuta dalla gang dei contrabbandieri di Allah è quella solita: passa per il nord della Turchia o dal Libano e finisce in Svizzera, prevalentemente, dove bande di impeccabili e molto eleganti antiquari «fabbricano» passaporti falsi per i reperti, legalizzandoli e in un certo senso riciclandoli. La Cina dei nuovi ricchi, il Giappone, gli Stati Uniti, la Russia: ecco le principali destinazioni finali. Senza dimenticare l'Italia, dove il commercio clandestino di materiali provenienti da scavi illegali è sempre fiorente. Un meccanismo antico e ben oliato, «grazie anche al fatto che da noi, ma anche nel resto del mondo occidentale non c'è la percezione di commettere un reato, e invece quel che succede è che così facendo si depaupera un patrimonio culturale che è di tutti».

Che si può fare per fermare la furia degli ignoranti, dei banditi di Allah? «Poco, forse nulla», geme il professor Morandi. «Noi operiamo nel Kurdistan irakeno, per ragioni di sicurezza. Ma nelle aree sotto il dominio jihadista sono loro a fare la legge».

Ci vorrebbe un'azione coordinata da parte di Europa, Stati Uniti, Russia. Ma alle viste non si scorge neppure un segnale piccolo così. Il che naturalmente non farà desistere i nostri Monuments Men. Perché in fondo è vero che non tutte le battaglie si combattono per vincerle.

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