Ogni manovra economica è sempre una coperta troppo corta per qualcosa o per qualcuno, fa delle scelte e non ne fa delle altre. È la ragione per cui la politica di un governo va misurata dalla somma delle sue manovre, non da una sola: e, nel caso del governo Meloni, fuor di preconcetti o di propaganda, la direzione complessiva parrebbe quella di voler alleggerire il lavoro, ricostruire la fascia produttiva del Paese, difendere il reddito reale e creare le condizioni per la crescita: questo, almeno, si ricava dalle analisi comparate dell'Ufficio di Bilancio, del Mef, di Eurostat nonché del Sole 24 Ore e del Corriere della Sera.
Il fantasmatico ceto medio viene banalmente individuato nella maggioranza di italiani che lavora, paga le tasse, sostiene il welfare ma è anche colpito dall'inflazione e dalle tasse stesse: una maggioranza trascurata (parrà strano) perché è ritenuta troppo agiata per essere aiutata ("ricca") anche se è troppo tartassata per vivere tranquilla, e troppo povera per fare investimenti.
Vediamo dunque le quattro manovre in estrema sintesi. La prima (2023) è d'urgenza e giunge in piena inflazione: il cuneo contributivo per i redditi medio-bassi viene tagliato di tre punti (fino a 25 mila) e di due (fino a 35 mila) così da aumentare il netto in busta senza passare da bonus o complicate detrazioni. Ha significato, per un dipendente tipo, qualche centinaio di euro in più all'anno.
Con la seconda manovra (2024) iniziano le riforme strutturali: taglio del cuneo fiscale prolungato e rafforzato (non accadeva dagli anni Novanta) e riduzione delle aliquote da quattro a tre: i primi due scaglioni si fondono in uno solo (al 23 per cento sino a 28 mila euro) con benefici stabili per i dipendenti, non più legati, quindi, a emergenze.
Nella terza (2025) le nuove tre aliquote, stabilizzate, diventano l'ossatura della nuova Irpef, primo passaggio verso una seria riforma dell'imposta sul reddito. Intanto, però, si rendono permanenti anche "sconti" su asili nido, decontribuzioni per madri lavoratrici e carte acquisti per famiglie giovani sotto i 40 mila, le categorie più esposte del ceto medio di riferimento.
La manovra per il 2026 è forse la più politica, perché interviene proprio dove c'è il buco nero della fiscalità italiana: ossia sulla fascia 2850 mila euro che è la più "schiacciata" e la meno considerata; il secondo scaglione, qui, scende dal 35 al 33 per cento per rifavorire il potere d'acquisto. In sintesi si tutelano dei redditi più bassi ma anche quelli che soprattutto producono e che tengono in piedi la domanda interna.
Questi gli addendi. Che cosa esce dalla loro somma, qual è l'impronta della politica economica del governo? Risposta azzardata: si mira a una riduzione fiscale di circa 25 miliardi annui a beneficio di lavoratori dipendenti tra 15 e 35 mila (riduzione effettiva 67% del lordo) estesa nel 2026 ai 3045 mila (il segmento più penalizzato da inflazione e mancati adeguamenti) ma con benefici anche per autonomi e pensionati di reddito medio. Anziché edifici traballanti, si cerca di edificare delle fondamenta solide per tutelare le famiglie con figli e con Isee medio-basso: è la manovra, ci sembra, di chi conta di governare anche in futuro e non vuole scavarsi la fossa da solo.
Impossibile non ricordare, a proposito, le spaventose zavorre che pesavano: la disgraziata eredità del Superbonus Conte (decine di miliardi di crediti fiscali da assorbire per anni nel bilancio pubblico) e nondimeno l'assoluta necessita di evitare una procedura d'infrazione europea che era a un passo, e che, imponendo tagli automatici, avrebbe congelato qualsiasi riforma.
Conclusione: le quattro manovre, viste come una sola, sono "politiche" perché fanno appunto delle scelte e non altre: ridurre la pressione fiscale su chi produce reddito (e non su chi lo assorbe) e privilegiare chi fa e chi lavora, le imprese normali e le famiglie che stanno crescendo: è l'humus da cui il governo
pensa che possa rifiorire la famosa "crescita", senza la quale, come non è chiaro a tutti, non potrà più esserci nessuna politica sociale che non sia demagogica o che duri più di una legislatura. Perché il granaio è vuoto.