I primi 70 anni di mr Dagospia: "Ho messo a nudo vip e presidenti"

Le confessioni di Roberto D'Agostino: gli inizi in banca, l'ingresso nei salotti. Dagli anni '60 all'Italia gialloverde

I primi 70 anni di mr Dagospia: "Ho messo a nudo vip e presidenti"

Guru dell'Italia cafonal, fondatore del sito più temuto dai «poteri marci», coniatore di fulminanti nomignoli per la classe dirigente (anzi, «digerente») italiana, da Sergio «Marpionne» a Daniela «Santadeché» da «WalterEgo» Veltroni al Bulletto di Rignano (Renzi), Roberto D'Agostino allo scadere del settantesimo compleanno («finalmente! Ci vogliono tanti anni per diventare giovani, motteggiava Picasso») sfoglia l'album dei ricordi. Lookologo con la banda di Arbore e Boncompagni, disc-jockey nelle discoteche romane, sceneggiatore e regista al confine tra cult e trash, poi confessionale web di indiscrezioni e segreti, ma la parabola inizia in banca. «A vent'anni entro alla Cassa di risparmio di Roma. Mia madre, bustaia, faceva i reggiseni per l'amante di un leader di allora del Psdi. Ottenni una segnalazione per un posto. Era il '68».

Che ci faceva Dago, nel '68, dietro allo sportello di una banca?

«Venivo da una famiglia proletaria, del quartiere San Lorenzo a Roma, ancora sventrato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ogni angolo, una maceria. Mio padre era saldatore alla Breda, si ammalò, rimase senza lavoro. Entrare in banca per me voleva dire sedici mensilità di stipendio, avere il frigorifero pieno, potere aiutare la famiglia, comprare la prima Fiat 500. Ero la persona più felice del mondo, mi attaccavo al lampadario dalla felicità. Avevo capito subito che quella dei Sessantottini era, come diceva Pasolini, la rivolta dei rampolli della borghesia che pensavano di fare la rivoluzione spostando i mobili di casa. In banca ci rimasi dodici anni. Certo, le mie passioni erano altre».

Quando arriva la svolta?

«Era il '65. Alla Rai serviva pubblico giovane per Bandiera gialla, in radio. Andiamo in via Asiago ad applaudire e ballare in questa trasmissione che proponeva per la prima volta in Rai la musica nuova, rock e rhythm and blues. Lì incontro Arbore e Gianni Boncompagni, che era il conduttore. Non ci siamo più lasciati. Poi lui ha fatto L'Altra domenica, e mi ha chiamato nell'85 per partecipare a Quelli della notte. Boncompagni, persona colta e curiosa di arte, è considerato uno che faceva tv trash, ma passava dieci ore al giorno per inventarsi le luci di Domenica in, ha creato un'estetica televisiva che era avanti di anni».

Arbore, Boncompagni. Altri incontri che hanno segnato i 70 anni di D'Agostino?

«Federico Zeri, un grande maestro con cui ho scritto Sbucciando piselli, poi Achille Bonito Oliva, dall'85 in poi sono stato insieme a lui tutti i giorni, un uomo di intelligenza straordinaria. Per me è stato importantissimo. Beniamino Placido, dopo il lavoro andavo a sentire i suoi seminari interdisciplinari sulla cultura anglo-americana alla Sapienza. Un altro incontro è stato quello con Fernanda Pivano. La beat generation per noi è passata attraverso la prefazione-capolavoro che la Pivano, allora oscura traduttrice, scrisse alla Strada di Kerouac per gli Oscar Mondadori. Ci siamo abbeverati a quei libri a poco prezzo. Altro momento importante per me è quando Renato Nicolini (architetto e storico assessore alla Cultura a Roma, dal '76 in poi, ndr) chiama me, che facevo già il disc-jockey per le radio e il Titan, per le Estati romane. Nicolini aveva capito che quella doveva essere l'estate di riconciliazione dopo Aldo Moro, che l'unico modo per riconciliare tutti noi che avevamo convissuto coi lacrimogeni, i cavali di frisia e i morti ammazzati, era la cultura. Quando me lo propose gli dissi: Renato, non si può proporre musica degli anni '70, perché bisogna scavallare un decennio di merda, e così andai a recuperare la musica felice degli anni '60, con Patty Pravo, i Beach Boys, i Beatles eccetera».

Roma godona? La Dolce vita un po' cafona quando è arrivata?

«Io la chiamavo la Truce vita. Tu entravi in un salotto e c'erano delle risse che mettevano paura. I salotti intellettuali all'epoca erano fatti da gente coltissima, che non aveva passato il tempo della vita col telefonino e i talk tv, ma a leggere e vedere tutto, mostre, film, libri. Ho conosciuto nella vita mondana romana certi personaggi come Alberto Moravia, Federico Fellini, Ettore Scola, ma anche Paolo Villaggio, persone talmente straordinarie, capaci di analisi e battute corrosive, che tu impallidivi e stavi in un angolo, zitto e buono. Quando Scola entrava in un salotto avevo paura. Oggi arrivano già col tovagliolo al collo e vogliono solo magnà. Quelli arrivavano nei salotti e dicevano: Mettere insieme tanta brutta gente è un'impresa!, non andavano alle cene per mangiare a scrocco, ma per mettere in crisi la banalità e la retorica degli altri. Oggi al confronto abbiamo quattro disgraziati col cervello spappolato».

E la politica quando la incrocia?

«Avevo cominciato a scrivere in vari giornali, da Lotta continua all'Europeo, poi nelle riviste femminili, da Centocose a Vogue Uomo, quindi Panorama e l'Espresso. Dopo Quelli della notte scrivo un libro, Come vivere, e bene, senza i comunisti. La prima guida a ciò che conta veramente nella vita. Mi creò qualche problema dentro l'Espresso, erano giornali ultra ideologici e nell'87, titolare così un libro, sembrava una bestemmia a San Pietro. Poi feci il colpo che mi alienò tutto il mondo culturale, cioè il libro di plastica. Libidine era un libro in plastica gonfiabile, con dei racconti comico-erotici, che vendette tantissimo in quella estate del 1985, ma fu considerato da Umberto Eco un pezzo di m... galleggiante. Nel'91 girai il mio primo film da regista, Mutande pazze, dove ho lanciato Raoul Bova, che poi non ha mai ringraziato, anzi si vergogna pure di quel film».

Sempre alla stagione dell'Espresso si deve la nascita di Dagospia, nel senso che le fu tolta la rubrica «Spia» dopo avere scritto che l'Avvocato Agnelli «portava sfiga».

«Quando si chiude una porta si apre un portone. Nell'89 nasce la Rete, si comincia a parlare di internet, avevo degli amici che erano fissati. Così nel 2000, consigliato dalla mia amica Barbara Palombelli, mi apro questo sito, mettendoci i soldi da solo, una decina di milioni di lire. Da lì è cambiata la mia vita. Nel 2000 non c'era Google, non c'era Facebook, all'epoca quando arrivò Dagospia la gente sentiva il bisogno di far sapere qualcosa ma non aveva i mezzi per farlo, ed ecco che Dagospia diventa lo strumento per raccontare fatti e fatterelli, indiscrezioni e maldicenze, che i giornali non potevano o non volevano pubblicare. Come successe col mio primo grande scoop su Tatò, presidente dell'Enel, che nessun giornale poteva permettersi di raccontare. Invece internet permette di non passare attraverso quella rete di protezione del potere rappresentata da giornali, televisioni, case editrici. Ieri mi arrivavano le foto da Villa Taverna con Salvini di qui e di là, in tempo reale ricevevo tutto dalla gente che era lì e col telefonino faceva le foto».

Anonimi suggeritori, ma anche meno anonimi. Cossiga è stato uno dei grandi «sussurratori» di Dagospia?

«Soprattutto ho avuto un'educazione politica da lui. Tutti pensiamo che la politica siano le persone che occupano Palazzo Chigi, il direttore generale della Rai o il capo dell'Eni. Invece la politica è cosa molto diversa da quello che vediamo. Quello è un simulacro. Se uno diventa Trump o Putin, è perché un potere invisibile ha delegato Putin o Trump a stare al potere. Il potere è una rete, non una persona che arriva al vertice. Cossiga sapeva che tutta la macchina della politica è fatta da servizi, lobby, interessi internazionali che intervengono. Se una persona arriva in un posto non è merito suo, è perché è la rete che l'ha deciso. Del resto, a Roma, anche un circolo canottieri è una rete di micropotere. Non è mai una operazione solitaria, ma collettiva».

Con quali potenti ha avuto più problemi?

«L'unico che non mi ha dato problemi è stato Berlusconi perché non gliene fregava niente di nominare il capo dei carabinieri, gestiva tutto Gianni Letta; gli importava solo la gestione dei propri affari. Con altri ho avuto problemi ma ho anche creato dei buoni rapporti. Di solito iniziano con delle querele».

Ne ha avute tante?

«Ho avuto dei grossi problemi, ma non mi va di rivangare. La felicità è avere poche pretese. C'è gente che vuole continuamente questo e quell'altro. Io dico più hai e più sono guai».

Vita mondana ne fa ancora?

«La vita mondana vuole dire conoscere delle persone, è un rito sociale fondamentale. L'Italia nasce nei paesi, non nelle città, siamo abituati allo struscio, a incontrarsi e raccontarci degli altri. Se tu non vedi nessuno in qualche modo inaridisci. Dalla vita mondana Proust ha tirato fuori la Recherche, Fratelli d'Italia di Arbasino fa capire gli anni '60 in Italia. Così, se oggi vuoi comprendere e bene i dieci anni del berlusconismo a Palazzo Chigi devi prendere in mano le foto del mio Cafonal che vale più di mille saggi ed editoriali. Sorrentino per La grande bellezza se l'è sfogliato molto bene».

E i tempi gialloverdi del potere pentaleghista, sono cafonal o no?

«Non si sono ancora appalesati nel mondo

romano, a parte la Raggi ed è stato subito il disastro dello stadio. Ma ciò che manca è la voce dell'opposizione, non ci sono manco più gli intellettuali engagé, l'unica che ha alzato la voce, pensa un po', è Rita Pavone...».

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