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I tanti padri di un disastro

È scandaloso come in soli undici anni si sia riusciti a ridurre un fiore all'occhiello dell'industria italiana in un una realtà desertificata con prospettive pressoché nulle di ripresa

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È scandaloso come in soli undici anni si sia riusciti a ridurre un fiore all'occhiello dell'industria italiana, campione europeo nel settore dell'acciaio con 10mila tonnellate prodotte ogni anno e 12mila dipendenti (20mila con l'indotto), in un una realtà desertificata con prospettive pressoché nulle di ripresa. Ci è voluto tutto l'impegno possibile per giungere a questo punto e a poco vale oggi imputare l'epilogo rovinoso a un concorso di colpe all'interno delle quali svaniscono le singole responsabilità. Potremmo usare un linguaggio diplomatico, imputare quella deriva all'incapacità tutta italiana di trovare un punto di equilibrio fra magistratura e politica, fra industria e ambiente, ma i protagonisti di questo dramma hanno un volto, hanno nome e cognome.

Dal plotone di magistrati rancorosi e del tutto sordi davanti alle necessità del territorio, alla rete di politici locali privi di scrupoli, che non hanno esitato a danzare anche sulle disgrazie familiari; da un management poco all'altezza del compito, anzi talvolta colpevole di errori grotteschi, a governi pronti ad alzare la voce sull'emergenza per poi dichiararsi impotenti di fronte all'ultima intemerata del pm di turno. Per non dire di forze sindacali che non hanno certo agevolato la ricomposizione degli equilibri sociali, con gesti di intransigenza degni di miglior causa. E che dire di un partner indiano, ArcelorMittal, che fin da principio non ha esitato a dichiarare la sua ingordigia, del tutto incurante dei destini dell'Ilva e delle sue potenzialità, ma anzi facendo sponda alle sue altre produzioni sparse nel mondo?

Di fronte a una crisi ormai divenuta strutturale, il governo Meloni avrebbe potuto supplire alle inefficienze di chi l'ha preceduto con un atto di forza, riportando sotto il controllo dello Stato una produzione essenziale per l'economia del Paese. Ma la scarsità di risorse pubbliche e il faro di Bruxelles, sempre acceso anche quando sarebbe interesse collettivo che fosse spento, hanno reso impercorribile questa strada. Sarebbe perciò paradossale che dopo dieci anni di disastri compiuti sotto i governi di sinistra - e con la complicità dei governi di sinistra - ora si imputasse all'esecutivo in carica la responsabilità di tanto sfacelo.

Negli ultimi mesi il presidente Franco Bernabè non ha lesinato avvertimenti, ha provato a diffondere il senso dell'emergenza, ma alla sua voce si è sovrapposta quella dell'amministratore delegato, Lucia Morselli, che evidentemente non ha ancora messo a fuoco la voragine - come ha esplicitamente sottolineato il ministro Guido Crosetto - nella quale sta velocemente precipitando l'ex Ilva. Né ha potuto riagguantare la situazione il ministro Raffaele Fitto, ieri pomeriggio nuovamente impegnato a tentare di finalizzare un intervento in extremis con il coinvolgimento del riluttante partner indiano.

Perciò nelle prossime ore avremo per la seconda volta, e probabile ultima, un commissario straordinario alla guida della ex Ilva.

Con grande disperazione dei fornitori locali - e delle migliaia di dipendenti - che a questo punto possono dire addio a gran parte dei loro crediti.

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