L'anomalia del governo e l'errore di Mattarella

L'esecutivo guidato da Giuseppe Conte è un governo "politico" travestito da "tecnico"

L'anomalia del governo e l'errore di Mattarella

C'è un peccato originale nella genesi del governo gialloverde, che finora tutti hanno fatto finta di non vedere o di trascurare. Un peccato che ipoteca non solo il suo futuro, ma quello delle nostre istituzioni e quello del Paese. L'esecutivo guidato da Giuseppe Conte, infatti, è un governo «politico» travestito da «tecnico». Una sorta di «ircocervo» nel quale non sono chiari ruoli, competenze, identità dei partecipanti e meccanismi decisionali. La sua immagine «tecnica» deriva da un premier «non eletto» e, nei fatti, non riconducibile in termini organici a nessuno dei due partiti della maggioranza. Un presidente del Consiglio che già nel suo biglietto da visita - «sarò l'avvocato degli italiani» - si assegna più un ruolo di esperto, di consulente, di «consigliere», che non un ruolo politico. Identikit, quello di Conte, che, peraltro, ritroviamo anche nei responsabili dei dicasteri più importanti: Economia, Esteri, Difesa. A confermare la natura tecnica dell'esecutivo, si aggiunge poi il suo atto di nascita: non è un programma di governo presentato agli elettori, ma un «contratto» stipulato dai due partiti della maggioranza. I punti programmatici si sommano, non si fondono in una comune prospettiva. Come nei governi «tecnici», appunto, le cui maggioranze si incontrano per una fase, ma poi non hanno l'ambizione di presentarsi al corpo elettorale come una coalizione vera e propria (almeno è quello che assicurano leghisti e grillini, per ora).

Se la natura è «tecnica», la sostanza, l'anima del governo Conte, invece, è squisitamente politica: i due dioscuri dell'esecutivo, che ne determinano le scelte e la linea politica, sono i due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Il potere è tutto nelle loro mani e lo usano avendo come riferimento un equilibrio basato sulle competenze, le sfere d'influenza: il Viminale, quindi immigrazione, sicurezza, presidio del territorio, è lasciato alla gestione solitaria di Salvini; mentre sviluppo, welfare, infrastrutture, sono appannaggio esclusivo di Di Maio e dei suoi fedeli. L'intesa prevede che i pentastellati non rompano le scatole al leader leghista sugli argomenti che gli stanno a cuore. E viceversa. Nei fatti è l'unico modus vivendi possibile, se si vuole tenere insieme una maggioranza che ha al suo interno forti identità, spesso non coniugabili. Lo si è visto sul decreto Dignità, subìto dalla Lega in silenzio, malgrado le proteste degli imprenditori del Nord e l'avversione di esponenti come Maroni e Zaia; oppure, sul dibattito sul futuro della società Autostrade, in cui i grillini hanno portato alla ribalta ipotesi di «nazionalizzazione» che ha moltiplicato i capelli bianchi sulla testa del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti; o, ancora, tutta la gestione dell'emergenza immigrazione lasciata nelle mani di Salvini, che sul «caso» dei profughi imbarcati sine die sulla motovedetta Diciotti, ha fatto venire le congestioni al presidente della Camera, Roberto Fico, senza che i vertici 5 stelle muovessero un dito. Insomma, la condizione per stare insieme dei due partiti è il «patto», il «giuramento». Un po' come il governo della confraternita della Costa a Tortuga, dove pirati come Henry Morgan o Jean-David Nau, detto «François l'Olonese», per convivere avevano un codice di comportamento e si dividevano i galeoni da razziare.

Lo strano profilo di governo «politico» con le sembianze del «tecnico» determina, però, una serie di inconvenienti e di storture. Prima fra tutte: a chi è affidato il compito della sintesi e della mediazione e, soprattutto, in che ambito? In un governo «tecnico», almeno in quelli che abbiamo sempre conosciuto, si esaurisce nel rapporto tra il capo dello Stato e il premier, che trae la sua influenza proprio dallo stretto legame con il Quirinale: per riportare i partiti a un'unità di intenti i vari Dini, Amato, Ciampi, Monti si appoggiavano agli inquilini del Colle di turno. Ne erano strumenti. Nel governo «politico», invece, il potere di mediazione e di indirizzo è prerogativa del presidente del Consiglio, che non per nulla è sempre stato o il capo della coalizione, o un'influente esponente di uno dei partiti che la compongono.

Nel governo «ircocervo» gialloverde, mezzo tecnico e mezzo politico, nessuno di questi due processi decisionali è, invece, praticabile. Conte, per la sua natura di «tecnico», non ha l'influenza politica per imporre la sua mediazione nella maggioranza: non è il primus inter pares, ma l'ultimo. Contemporaneamente, trovandoci di fronte a un governo nella sostanza politico, i due «vicepremier» non gli riconoscono neppure la forza che gli dovrebbe derivare dal rapporto con il Quirinale. Come pure il capo dello Stato, non ha la possibilità di influenzare attraverso il premier il governo: Mattarella può chiedere tutte le volte che vuole a Conte di intervenire su Salvini sulla vicenda Diciotti, ma con zero risultati. A meno che la discreta moral suasion del Colle non si trasformi in un atto pubblico, cioè il capo dello Stato, ad esempio nel caso della motovedetta militare, non rivendichi il suo ruolo di capo delle Forze armate (ma sono sortite non ripetibili e lontane dal temperamento del personaggio Mattarella). Per cui siamo al cortocircuito istituzionale: tutte le spinte e le controspinte, i possibili compromessi, le possibili mediazioni cadono nel vuoto di quel limbo che è diventato Palazzo Chigi. Con capitan Matteo Morgan che, vista la natura del governo di cui fa parte, avvisa legittimamente: «Io sono il ministro dell'Interno e gli immigrati sul suolo italiano non debbono sbarcare». E, sull'altro versante, capitan Giggino l'Olonese che avverte: «La concessione ad Autostrade è da cancellare. I contributi all'Ue non si debbono pagare». Possono dire, quindi, ciò che vogliono, comportarsi più da capipartito che non da ministri, visto che nessuno dei due è il premier, nessuno dei due ha la responsabilità collegiale.

Ora, con tutto il rispetto per il capo dello Stato, il rischio di un'involuzione, o evoluzione (a seconda dei gusti), era prevedibile sin dalla nascita del nuovo esecutivo. Il peccato originale, di un governo politico dalle sembianze tecniche, era lì. I rischi erano evidenti. Ma nessuno li ha voluti vedere: invece di seguire la via maestra di puntare sulle coalizioni elettorali (a cominciare dal centrodestra) o ritentare la via del voto, ci si è chiusi per tre mesi in laboratorio e si è dato il via all'esperimento. «Per evitare un governo tecnico», per usare le parole di Salvini, si è messo in piedi, paradossalmente, un esecutivo guidato da un «tecnico», con «tecnici» sulle poltrone più importanti, ma con un imprinting marcatamente politico. Già, l'ircocervo, il governo della Tortuga. Il problema è che la sperimentazione in questo Paese va avanti da anni.

Tentativo dopo tentativo, coloro che si sono succeduti sul Colle, seguendo la stella polare che le elezioni fanno male, hanno portato i grillini al 30%. Speriamo che l'esperimento del «governo del cambiamento» non determini, ora, anche un terremoto istituzionale.

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