Nel cortile degli studi di Mediaset al Palatino, su uno dei colli di Roma, Stefano Buffagni, uno degli uomini di punta dei 5stelle nel governo, spazza via le speranze di Matteo Renzi su un possibile «rimpasto». «Ma quale rimpasto?!» insorge: «Conoscendo Conte non lo farà mai, non è tipo da mettersi in una situazione del genere. Poi, con Renzi... con lui se apri questa partita non sai come finisce». Vai sul versante di Italia Viva e capisci che gli uomini dell'ex premier hanno già capito l'antifona. «Chiederemo il rimpasto confida Luciano Nobili, uno dei renziani più convinti , ma non è detto che ce lo diano». «L'aria che tira è che non succederà niente dice Gennaro Migliore, che ha portato Iv al 7% in Campania , altro che rimpasto! Solo che a noi Conte non ci può lasciare in ambasce. Deve muoversi. Anche perché l'uomo è ambizioso, non si preclude niente, anche se ci sono personaggi che hanno più carte di lui da giocare per il Quirinale».
Inutile dire che puntualmente 24 ore dopo, a latere di un convegno delle piccole e medie imprese, davanti ai microfoni di tutte le tv del Belpaese, il premier ha chiuso la porta all'idea del «rimpasto»: «Non ne vedo l'esigenza». Un atteggiamento che testimonia la consapevolezza di Conte di essere più forte dopo la tornata elettorale, ma anche l'intuizione per temperamento e per analisi della situazione - che per lui la prudenza è d'obbligo. Insomma, pure dopo referendum e elezioni regionali l'inclinazione del premier è quella di seguire l'insegnamento degli antichi: «Quieta non movere». Nella convinzione che cambiare oggi un ministro o un sottosegretario significa ritrovarseli nemici domani. Solo che il «surplace» con la tecnica dei tre stadi - cioè «dire sì», «rinviare» e «ancora rinviare» alla lunga per lui può diventare pericoloso, perché se da una parte il combinato disposto del risultato referendario e delle regionali ha reso il premier più robusto, più corazzato, dall'altra gli è venuto meno lo schema con cui si è difeso in questi mesi, cioè proteggersi dietro l'alternativa «o il mio governo, o le elezioni».
Ora la seconda opzione, dopo la riduzione dei parlamentari, non esiste più. Le urne anticipate non sono uno sbocco praticabile. Lo hanno capito anche quei testoni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ergo, il premier è più forte, ha una chance da giocare che potrebbe anche - l'ipotesi è per ora solo di scuola - aprirgli la strada per un ruolo più in alto. Ma, contemporaneamente, è lui stesso chiamato a mettersi in gioco: non può stare fermo, non può muoversi al rallentatore su Mes, Recovery Fund e quant'altro, perché, a lungo andare, venuta meno la paura se non il terrore del voto, qualcuno dei capi della sua coalizione potrebbe anche convincersi che di fronte allo stallo, al logorio a cui lo sottopone un esecutivo trasformato in una gabbia, forse sarebbe consigliabile cimentarsi in un'altra avventura. Il «paradigma» di questo rischio è il risultato deludente di Italia Viva di domenica scorsa: il partito di Renzi si trova a pagare sul piano dei voti la presenza in un governo che non ha certo brillato al di là delle mille affabulazioni del premier e dei suoi leader - per tasso di riformismo e di vocazione alla modernizzazione. Un «virus» che nel tempo potrebbe contagiare anche il Pd perché, al di là del sollievo di non avere perso la Toscana o la Puglia, i risultati del partito di Zingaretti non sono così eclatanti. Anzi. «Possiamo dire con un'abbondante dose di benevolenza osserva un interlocutore imparziale come il capogruppo di Leu, Federico Fornaro, esperto di flussi elettorali che il Pd ha tenuto».
Quindi, dopo il 3 a 3 nel voto regionale e la vittoria dei «sì», Conte ha la possibilità addirittura di sbancare il banco, ma, nel contempo, nel lungo andare, potrebbe pure rischiare di perdere tutto. A questa condizione va aggiunta la constatazione che il personaggio è sì «pragmatico», ma nel contempo ambizioso: uno di quei tipi, quindi, che con «metodo» potrebbe tranquillamente sedersi al tavolo di black jack e di poker. Insomma, calcolando un minimo di rischio, il suo «azzardo» non si pone limiti. Lo dimostrano gli ultimi due anni: a digiuno del tutto di esperienze di governo, non ci ha pensato due volte ad accettare il ruolo di premier; per cui, se gli si presentasse in futuro l'occasione per insediarsi al Colle, il fortunato Gastone della politica italiana non esiterebbe un istante a coglierla. In fondo il personaggio viene da un mondo, quello grillino, in cui «competenza» ed «esperienza» sono solo degli optional. Inoltre, all'ambizione Conte accompagna una notevole dose di «spregiudicatezza» di cui tutti si sono accorti nel Palazzo. Tutti ricordano che, senza problemi o dubbi, è passato da premier di un esecutivo gialloverde a capo di un governo di segno opposto. Oppure che in un solo intervento Conte si è sbarazzato di un competitor per Palazzo Chigi come Mario Draghi («è stanco») e non ha avuto problemi ad esprimere il suo «endorsement» per un secondo mandato a Mattarella: al Quirinale hanno considerato quell'uscita un tentativo goffo, e interessato, di tirare via dal tavolo quell'ipotesi. Tutti fatti che hanno trasformato, nel volgere di pochi mesi, l'idea di un Conte che approda al Quirinale da una battuta, tra l'ironia e il sarcasmo, a una suggestione che non per tutti è campata in aria. «Certo sarebbe una sgrammaticatura dice sempre Fornaro , visto che è un cinquantenne che in politica ha avuto un cursus honorum breve. Poi, però, mi chiedo per quale merito la Cartabia, poco più che cinquantenne, è stata presidente della Consulta? Con questi precedenti può succedere di tutto». «Appunto, cinquant'anni Conte li ha compiuti osserva Marco Bella, grillino con un titolo accademico e ha tutti i numeri per aspirare al Colle: e poi avremmo finalmente un capo dello Stato professore universitario come il sottoscritto».
Siamo, quindi, ad uno dei pezzi di storia ricorrenti in questo Paese, cioè del personaggio che può compiere il percorso dalle stalle alle stelle, o viceversa. Molto dipenderà da lui e dal livello del sentimento di «insofferenza» nei suoi confronti che, in questo anno vissuto pericolosamente, ha animato a turno tutti i suoi alleati.
Spiega Gianfranco Rotondi, l'ex dc che in questi mesi è entrato a fare parte delle truppe «di riserva» del premier: «Conte con queste elezioni si è imbullonato alla poltrona senza muovere un dito. Ora, però, l'arma delle elezioni anticipate con cui ha tenuto a bada maggioranza e Parlamento, è scarica. Deve dare di più: se riesce può arrivare al Quirinale, se sbaglia finire nella polvere».
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