Il linciaggio delle parole

Dopo il linciaggio del ministro Roccella, la vera domanda è: cos'è oggi la memoria dell'Olocausto?

Il linciaggio delle parole
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La settimana scorsa il ministro della Famiglia Eugenia Roccella ha sollevato un vespaio col suo intervento all'Ucei, l'Unione delle comunità ebraiche italiane. Abbiamo così avuto l'ennesima dimostrazione delle condizioni lamentevoli nelle quali versa il dibattito pubblico italiano. Come ormai avviene con puntualità, un singolo passaggio del suo discorso, quello secondo cui i viaggi d'istruzione nei luoghi della Shoah si sarebbero ridotti a "gite", è stato isolato, semplificato e sottoposto a una sorta di linciaggio. Un linciaggio non soltanto povero di argomentazioni, ma pure disinteressato al contesto da cui quella frase era stata estrapolata: un intervento che non aveva certo l'obiettivo di minimizzare l'importanza storica dell'Olocausto, tutt'altro. Se il nostro dibattito pubblico non fosse lamentevole, l'intervento di Roccella avrebbe sollecitato ben altra discussione. Perché ha posto una domanda cruciale: che cos'è oggi, per noi, la memoria della Shoah? Quando la scuola fa leggere loro Anna Frank e Primo Levi, quando li porta ad Auschwitz o Dachau, come reagiscono gli studenti, come se il passato contasse davvero per il loro presente o come se stessero prendendo parte a una liturgia cui reagire tutt'al più recitando qualche formula di rito? Cruciale sempre, questa domanda lo è ancor di più oggi di fronte alla recrudescenza dell'antisemitismo provocata dal conflitto mediorientale. Recrudescenza che rende non solo lecito ma doveroso chiedersi quale impatto abbiano avuto sulla coscienza pubblica del nostro Paese così tante letture e così tante visite d'istruzione. La Shoah è la catastrofe dell'Occidente. I nazifascisti ne sono stati i carnefici e gli ebrei le vittime, non lo dimentichiamo certo, ma la sua memoria non riguarda soltanto i nazifascisti e gli ebrei, ci riguarda tutti perché mette in discussione i fondamenti della nostra convivenza. Quella memoria resta viva, allora, fin quando lo rimane la cultura occidentale entro la quale essa acquista un senso. Mentre rischia di perdere valore via via che la crisi d'identità dell'Occidente si va facendo più profonda. Di più: la crisi dell'Occidente, e dell'Europa in particolare, è tale che esso, non sapendo più promuovere in positivo i propri valori, ha tentato negli ultimi decenni di sostenerli in negativo proprio cristallizzando in una liturgia il ricordo della loro catastrofe. Ed è riuscito così a indebolirne il significato. Il conflitto israelo-palestinese verte anche sui valori dell'Occidente, il suo diritto di difendersi, il suo universalismo, le sue ipocrisie, il suo rapporto col resto del Pianeta e l'islam in particolare, e ovviamente la posizione che hanno avuto nella sua storia e hanno ancora oggi gli ebrei.

La recrudescenza di quel conflitto non poteva che riattizzare lo scontro politico e culturale sull'identità occidentale, e questo riattizzarsi, a sua volta, non può che spingerci ancora una volta a interrogarci sul senso della Shoah e della sua memoria. Interrogarsi che, lungi dall'essere un'operazione di banalizzazione, rappresenta al contrario il riconoscimento di una centralità identitaria ineludibile.

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