La sfida al virus adesso è campale. È una battaglia di terra, giorno dopo giorno, su campi ben definiti: sanità, scuola, trasporti, aziende. Questo significa camminare su un filo, tirato lungo due poli: da una parte fare i conti con il contagio, dall'altra sopravvivere a un genocidio economico. Non è affatto facile. Sembra un paradosso, ma i tempi del «tutto chiuso» erano meno complicati. La speranza è contenere i danni. Il sentimento che adesso sta diventando sempre più feroce è che si è perso tempo. Il problema del governo è dimostrare che non è così. È una rincorsa. Si corre per rinforzare i medici di famiglia, per assumere anestesisti e infermieri negli ospedali, per migliorare le strutture, per gli insegnanti di sostegno nelle scuole, per coinvolgere i privati nei trasporti, per trovare i soldi per sostenere lavoro e impresa. La paura è guardare troppo avanti, quando molti nodi verranno al pettine.
Non aspettatevi da Giuseppe Conte un progetto di lungo periodo. Non è uomo che ama navigare in mare aperto, bisogna però riconoscere che in questo periodo pochi come lui sono in grado di evitare le correnti insidiose e gli scogli della politica. Lo ha dimostrato anche ieri pomeriggio al vertice con i partiti di maggioranza. Il premier ha ascoltato le richieste del Pd, i sussurri dei Cinque Stelle, le lamentele dei renziani e poi ha messo sul tavolo le sue carte. Non rivelano quello che va fatto, ma chiariscono cosa assolutamente al momento non si può fare. Il primo punto è fondamentale: «Non ci possiamo permettere misure generali troppo severe». Non le regge il Paese, non le regge l'economia, non le reggono i sondaggi. Gli italiani non sono nello stesso stato d'animo di marzo. Non è solo una questione di egoismo o di sacrifici. È che un chiudi-apri-chiudi a livello mentale non si regge. La quarantena totale è la carta della disperazione. Si usa solo se davvero non c'è più speranza. Qualcosa però va fatto. Non importa neppure vedere quanto sia utile o meno. Serve un segnale, anche questo psicologico, per ricordare che l'emergenza non è finita e bisogna stare attenti.
Il premier ha capito che il suo futuro non politico non passa per questa o quell'etichetta di partito. Da tempo ha preso le distanze dai grillini, ora fa lo stesso con il Pd. Conte è semplicemente Conte e si sta costruendo una sua base di consenso. Non sta giocando una partita per Franceschini, Zingaretti, Di Maio e tantomeno Renzi. Non sa quanto valga il suo «partito», ma ha capito che può essere un punto di riferimento politico. C'è qualcuno più forte di lui all'interno della maggioranza? La risposta che si dà è no. Non è del tutto sbagliata. Molto dipende da come riuscirà a gestire la lunga stagione del coronavirus. I rischi sono tanti e ci vuole anche fortuna. La sua tattica ora è evidente. Non c'è nessuna apertura a larghe intese. Il perimetro della maggioranza resta questo. Non c'è bisogno di dialogare e confrontarsi con le opposizioni. Non ha alcuna voglia di condividere la scena con altri. Lo si è visto già nel modo con cui ha liquidato prima dell'estate non solo Salvini, Tajani o la Meloni, ma qualsiasi interferenza potesse arrivare da «task force» care a Mattarella. La differenza è che adesso cerca di fare sue alcune proposte di buon senso che arrivano dall'altra parte: come il rinvio delle cartelle esattoriali. L'emergenza si affronta non badando a spese. La sanità va ristrutturata. La scuola ha bisogno di docenti. Le attività produttive vanno aiutate. Il debito non può essere adesso una preoccupazione. Qui c'è il suo grande azzardo. Deve assolutamente avere risposte positive dall'Europa. Conte sta scommettendo tutto sul Recovery. È da lì ora che passa tutto.
È cambiato anche l'atteggiamento con i presidenti delle Regioni. Il braccio di ferro è stato smorzato. Vogliono più poteri? Se li prendano.
Vogliono il tavolo permanente? E così sia. Il coprifuoco, in pratica, fatelo voi. Questo significa anche maggiori responsabilità politiche. Se il contagio diventa ingestibile Conte magari saprà contro chi puntare l'indice.
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