Rampolli della buona «borghesia» bengalese. Vissuti nei quartieri eleganti, frequentando scuole esclusive e università prestigiose. Ecco chi sono i sei sanguinari terroristi di Dacca, che hanno torturato e ucciso 20 innocenti, 9 dei quali nostri connazionali, colpevoli unicamente di non conoscere il Corano o di vestire all'occidentale. Le immagini che girano in rete ci rivelano queste belve in una dimensione paradossale. Frequentavano locali alla moda, con avvenenti attricette e abiti griffati. Allora? Come è scattato il meccanismo di radicalizzazione? Come si può spiegare una colonizzazione psicologica così profonda e brutale?
Una cosa è certa, l'armamentario concettuale con il quale larga parte dell'intellighenzia occidentale continua a (non) spiegare le «ragioni» del fenomeno è semplicemente demenziale. Queste belve non sono i «dannati della terra». Non sono il nuovo «proletariato», né esterno, né interno, non sono in alcun modo i poveri sfruttati dalle logiche del profitto, che si ribellano al loro destino e fanno la «rivoluzione». Queste analisi sono solo una summa di stupidaggini, che hanno il sapore del luogocomunismo e il retrogusto pigro e stantio di chi non vuole liberarsi di vecchi, inutili schemi interpretativi, mettendosi seriamente al lavoro per capire la realtà che abbiamo di fronte. Preparatevi alle «analisi» che gli «intellettuali» ci propineranno nei prossimi giorni: la colpa è dell'Occidente, con le sue grandi responsabilità storiche. Il terrorismo è solo la risposta di un mondo oppresso al tentativo di omologazione neoliberale del pianeta. Questa visione, masochistica, a momenti consolatoria, sempre, in ogni caso, vile, è solo un modo di sfuggire ai nodi della «questione». La quale è certo complessa, ma rivela anche alcuni tratti chiari ed evidenti.
Siamo in guerra con un mostro ideologico-religioso, che ha le sue radici nella cultura, nella memoria storica, nell'immaginario islamico. Da qui trae la sua forza e il suo potenziale di legittimazione. Negarlo è il modo migliore per favorirne la diffusione e depotenziare l'azione di contrasto. Che va attuata su due piani. Il primo militare: bisogna distruggere i centri di irradiazione dell'idea del Califfato, a partire dall'Isis. E il nostro (...)
(...) Paese non può avere un ruolo da spettatore in questa spaventosa vicenda storica. Certo, senza una portaerei, senza gli F35, senza un esercito finanziato degnamente, non si capisce bene come l'Italia potrà svolgere la missione che le compete. I nostri veleni ideologici «pacifinti» e lo scemenzario buonista non ci forniscono alcun aiuto per mettere la parola fine all'orrore che abbiamo davanti. Anzi, funzionano come nutrimento per i nemici della democrazia.
Il secondo piano è invece quello culturale: la lotta al terrorismo islamico andrà a buon fine solo se sarà pienamente consapevole delle sue ragioni e dei compiti che ha di fronte. Il terreno delle idee è semplicemente contiguo a questo fronte di lotta.
Bisogna ingaggiare una durissima battaglia culturale perché l'islam compia la sua «rivoluzione», incorporando, per amore o per forza, come è avvenuto per altre ispirazioni religiose, l'idea della laicità dello Stato, della libertà individuale, della eguaglianza uomo-donna. Non bisogna più tollerare posizioni ambigue, sfumate, reticenti. Se c'è un islam pronto a combattere per la sua evoluzione e la sua «riforma», allora vogliamo vederlo, ovunque, in prima linea.Luigi Caramiello
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