Arrivati a questo punto, forse solo uno studioso di dinamiche mentali può capire il percorso che ha portato la Procura di Milano, e in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, a trasformare le indagini sull'Eni in una questione di vita o di morte; a fare della condanna per corruzione internazionale un obiettivo che rendeva lecito omettere le prove, premere sui giudici, assoldare come testimoni d'accusa personaggi inaffidabili. Ieri, mentre il Consiglio superiore della magistratura si prepara a tirare le fila della sua indagine sui veleni milanesi, emerge un documento significativo. É firmato dal procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, e segna una nuova sconfitta per De Pasquale: ma è un colpo che il procuratore aggiunto si sarebbe risparmiato, se avesse preso atto più serenamente dell'assoluzione dei vertici dell'Eni.
Contro la sentenza che il 17 marzo scorso riconobbe l'innocenza dell'ad di Eni, Claudio Descalzi, e del suo predecessore Paolo Scaroni, De Pasquale aveva proposto, come prevedibile, il ricorso in appello. Ma aveva aggiunto una richiesta: di essere lui a rappresentare anche in appello la pubblica accusa. Solo io, diceva in sostanza De Pasquale, conosco per intero lo sterminato fascicolo, solo io posso dimostrare la colpevolezza di Eni.
Ebbene, il procuratore generale gli risponde che non è affatto così. Le carte di Eni le conosce altrettanto bene un altro magistrato, il sostituto pg Celestina Gravina, che ha gestito il processo d'appello «nei confronti di due imputati per lo stesso fatto, affrontando lo studio del copioso materiale probatorio raccolto». Il problema è che in quel processo la Gravina «ha presentato conclusioni contrastanti con le richieste contenute nell'atto d'appello del dottor De Pasquale»: ovvero ha chiesto e ottenuto l'assoluzione dei due imputati perché «il fatto non sussiste». Quindi nell'aula del processo d'appello a Descalzi e Scaroni, previsto per il prossimo autunno, ci andrà lei, la Gravina. E De Pasquale dovrà rassegnarsi a vederla chiedere la conferma delle assoluzioni che per lui costituiscono - nella migliore delle ipotesi - un colossale errore giudiziario.
Ammesso e non concesso che per quella data De Pasquale sia ancora al suo posto di procuratore aggiunto. Sulla sua testa pesa la proposta della prima commissione del Csm di dichiararlo «incompatibile» con la Procura milanese, come pure il collega che si è scontrato più frontalmente con lui, il pm Paolo Storari. Gli interrogatori dell'altro ieri, in un palazzo di giustizia blindato, hanno convinto il Csm che invece De Pasquale e Storari possono continuare a convivere serenamente nella stessa Procura? Sulla decisione finale del Consiglio superiore peserà, insieme alle colpe dei singoli, l'intero quadro - per alcuni aspetti disarmante - delle lacerazioni cui la Procura milanese è andata incontro nella gestione dei fascicoli sull'Eni e sulla fantomatica «loggia Ungheria» descritta da Piero Amara, ex avvocato di Eni.
Sono i verbali che Storari consegnò a Piercamillo Davigo - finendo per questo anche lui sotto inchiesta - accusando il suo capo Francesco Greco di non permettergli di indagare né su Amara né sulla loggia. Anche Greco era finito per questo sotto indagine, lunedì la sua posizione è stata archiviata: nel provvedimento il gip di Brescia scrive che risultano «smentite o comunque grandemente ridimensionate le propalazioni accusatorie di Storari in ordine a presunti ritardi o inerzie degli organi di vertice della procura di Milano».
Nel provvedimento si scopre che oltre che iscrivere nel registro degli indagati Amara e il suo collega Vincenzo Armanna, Storari intendeva indagare per associazione segreta anche alcuni dei personaggi indicati da Amara come appartenenti alla loggia, tra cui l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti e l'allora presidente del Consiglio di Stato Giuseppe Patroni Griffi. Ma per il gip fece bene Greco a andarci piano, trattandosi di «meri elementi di sospetto, da valutare con un approccio ispirato da massima prudenza».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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