Coronavirus

"L'Italia produrrà milioni di mascherine". Ma nessuno ha il via libera a venderle

Il commissario Arcuri ne promette 25 milioni al giorno. Ma il settore è una giungla: solo 21 aziende hanno già ottenuto la certificazione dell'Iss

"L'Italia produrrà milioni di mascherine". Ma nessuno ha il via libera a venderle

Arriverà. Sarà. Troveremo. Faremo. La gestione italiana dell’emergenza coronavirus è declinata al futuro. Le imprese avranno il sostegno dello Stato. I prestiti arriveranno presto. Il Recovery Fund sarà la rivoluzione in Ue. Partirà la fase 2. Vedremo. Il problema è che agli annunci non s'è ancora visto seguire un gran che. Ecco perché a una settimana dall'inizio della ripartenza gli annunci di Domenico Arcuri sulle mascherine lasciano un po' interdetti. Lo scetticismo è giustificato. "Arriveremo presto a produrrne almeno 25 milioni al giorno”, ha detto pochi giorni fa senza spiegare se quel "presto" si riferisce al futuro prossimo o (molto) lontano.

L’idea del commissario straordinario è quella di arrivare all’autarchia. È già stato siglato un accordo "con due grandi imprese italiane che stanno producendo 51 macchine utensili" per realizzare "da 400mila a 800mila mascherine al giorno". Come si arriverà a 25 milioni al giorno è ancora un mistero. Ma è probabile che per fare "da sola" l'Italia avrà bisogno dei privati. Al momento "106 le imprese" hanno "ricevuto l'approvazione al loro programma di investimento" e "le prime 5 hanno sottoscritto" un contratto per rifornire la Protezione Civile di Dpi. C'è poi una pletora di imprese che si sono rimboccate le maniche per riuscire a confezionare mascherine chirurgiche e aiutare il sistema Italia. Il problema è che delle quasi 400 aziende che hanno presentato la domanda per ottenere dall'Iss l'autorizzazione a realizzarle, solo in 23 hanno già ottenuto il via libera alla commercializzazione. Tutti gli altri sono impantanati in procedure e carte burocratiche.

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Dopo lo scoppio dell'emergenza, il governo è intervenuto due volte sul tema mascherine. La prima con il decreto del 2 marzo, dove ha dato la possibilità di utilizzare anche prodotti privi del marchio CE "previa valutazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità". Il 17 marzo, invece, ha specificato come "produrre, importare e immettere in commercio" Dpi "in deroga alle vigenti disposizioni". La "deroga" non significa liberi tutti, è solo un modo per dire: tu intanto lavori, poi ti daremo l'autorizzazione a vendere. Le opzioni sono due. Chi vuole realizzare mascherine chirurgiche deve inviare un'auto-certificazione all'Iss in cui attesta le "caratteristiche tecniche" del prodotto e il "rispetto di tutti i requisiti di sicurezza". Poi deve spedire le prove di quanto dichiarato e attendere che l'Iss apponga il semaforo verde. Le aziende che intendono produrre o importare Dpi devono fare lo stesso percorso, solo rivolgendosi all’INAIL.

Mascherine
Una scorta di mascherine chirurgiche (LaPress)

Fino ad oggi, a sentire le imprese, l'Iss "ha lavorato bene" impartendo consigli su come superare gli ostacoli. Per ottenere il via libera, infatti, il prodotto deve essere conforme alle norme (EN e ISO) che si certifica con test su efficenza di filtrazione, trasparibilità, pulizia microbica e resistenza agli schizzi. È questo il vero collo di bottiglia. "I laboratori che fanno queste prove sono pochi”, racconta un imprenditore del settore medico. E costano parecchio: a Bologna il prezzo è fissato a 1.990 euro più iva. Il rischio è che se sbagli puoi essere costretto a ripeterlo più volte. "Alla fine fai presto a spendere 10-15mila euro", sospira l'imprenditore. T.F. Arredo Tessile si è rivolta al Politecnico di Milano. Dopo il primo test, spiega il titolare, "ci hanno fatto delle obiezioni e consigliato come procedere per far sì che andassero a buon fine. Mi sono procurato i materiali e li ho rimandati a testare a Milano". Ora è in attesa che l'iter tecnico arrivi alla fine, poi invierà tutto all'Iss nella speranza di ottenere il bollino verde.

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Reperire il materiale giusto non è facile, visto che se ne trova in grosse quantità solo nei Paesi esportatori (Cina e Turchia). Molte aziende hanno realizzato prototipi con materiali che devono ancora essere validati, e così i tempi si allungano. "Al telefono l'Iss mi ha detto che ci sono state più di 2mila richieste", afferma Michele Vencato, Sales Manager di Isan Ai Miral Tex, "anche da chi si è proprio improvvisato produttore di mascherine". Esiste infatti una terza via, quella più semplice. Ovvero la creazione di maschere “non medicali” da vendere ai cittadini per andare a fare la spesa. Vengono realizzate con i più disparati tessuti, ma spesso non sono state sottoposte ad alcuna "prova" sulla filtrazione. Lo prevede l’articolo 16 del decreto firmato da Conte. "Hanno la stessa funzione di un foulard", dice qualcuno. Anche se è sempre valido il motto: piuttosto che niente, meglio piuttosto.

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Decine di aziende, soprattutto tessili, hanno provato con spirito di dedizione a riconvertirsi. Qualcuno di loro ha anche avviato l’iter per ottenere il via libera dell'Iss, ma poi ha deciso di rinunciare. "È improponibile - racconta Fabio Campagna, imprenditore emiliano - conosco aziende che dopo un mese e mezzo ancora non riescono a produrre. Prima avevamo pensato di buttarci sulle mascherine chirurgiche, ma ci saremmo infilati in un tunnel senza uscirne vivi. Quindi le faremo in deroga con un tessuto 100% cotone, idrorepellente e antibatterico”. Mauro Caverni, titolare della 3EMME di Lastra a Signa, si trova più o meno nella stessa situazione. Normalmente realizza abbigliamento tecnico sportivo. In questi mesi si sta adeguando. Le sue mascherine sono state "testate dell'Università degli studi di Firenze e classificate con un efficenza di filtrazione superiore al 95,5% su particelle maggiori di 0.3µm". Non sono però né dispositivi medico chirurgici, né DPI. Dunque non ha ancora il timbro dell'Iss: "Non è semplice - racconta - Nessuno ci ha detto come fare e i requisiti sono talmente tanti che neppure so come fare a recuperarli". Intanto vende le sue mascherine ad uso civile, secondo quanto permesso dalla legge. In fondo il test dell'Università fiorentina è buono. “Il nostro desiderio è solo quello di dare una mano per quanto possibile e cercare allo stesso tempo di non far morire l’azienda”. Che altrimenti sarebbe rimasta ferma.

A tutta questa giungla si aggiunge l'ordinanza firmata dal commissario Arcuri che impone il prezzo della mascherine chirurgiche (quelle certificate) a 50 centesimi di euro al pezzo. Per produttori e farmacisti è troppo poco. Non ci stanno dentro coi costi. Almeno sembra che l’Iva “sarà” azzerata.

Per ora col verbo al futuro.

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