L'occasione persa del "dictator"

Mario Draghi è un'occasione perduta. Non è un giudizio negativo sul suo lavoro. È un sentimento, una sorta di rammarico su quanto avrebbe potuto dare se non ci fosse stato davanti al suo orizzonte il profilo del Colle.

L'occasione persa del "dictator"

Mario Draghi è un'occasione perduta. Non è un giudizio negativo sul suo lavoro. È un sentimento, una sorta di rammarico su quanto avrebbe potuto dare se non ci fosse stato davanti al suo orizzonte il profilo del Colle. È ormai chiaro che l'azione del suo governo è stata meno efficace per il gran ballo del Quirinale. È come se il fuoco della politica si fosse spostato dalla rinascita dell'Italia alla domanda: chi prenderà il posto di Mattarella? È che certi eventi non soltanto scandiscono i tempi della politica, ma ne influenzano i progetti. Ecco in sintesi cosa è successo.

Draghi è arrivato a Palazzo Chigi con la missione di disegnare il futuro. Gli italiani avevano bisogno di speranza, di uscire dalla pandemia e di ricominciare a vivere, di ripartire anche dal punto di vista economico, con l'aiuto dei fondi europei. Il piano Recovery nell'immaginario di tutti non era solo lo strumento per sanare i danni, ma la grande opportunità per ritrovare slancio e disegnare le linee strategiche dei prossimi anni. Quel lavoro ora sembra smarrito. Draghi doveva incarnare, in un contesto democratico, il ruolo del «dictator». Attenzione, dictator e non dittatore. Il riferimento è alla carica, alla funzione pubblica, nella res pubblica di Roma. È l'uomo chiamato a risolvere una questione grave e eccezionale, a cui per un periodo determinato vengono affidati poteri speciali. È la missione, solo per fare un esempio, che viene affidata a Pompeo Magno quando c'è da liberare il Mediterraneo dalle incursioni dei pirati. L'idea è di affidare a qualcuno la soluzione di un problema che ha a che fare con la sicurezza nazionale e con il destino di una nazione. Lo spirito che c'è alla base del governo Draghi, e con le dovute differenze storiche e di civiltà, doveva essere più o meno questo. La sensazione è che qualcosa, appunto, sia cambiata. Draghi, candidandosi di fatto alla presidenza della Repubblica, ha finito per perdere quel tipo di autorità, quel carisma intangibile e inattaccabile. Draghi ha messo un piede nell'arena politica. Non è lo stesso errore di Monti che s'inventò un partito e si candidò alle elezioni, ma un po' si è ritrovato a dover fare i conti con i partiti. Non c'è più quella distanza. La sua azione sembra dispersiva. Il piano di ripresa e resilienza è finito sullo sfondo e il timore è che non sia soltanto qualcosa di contingente. Come sarà il Draghi post febbraio? Al di là di come andrà a finire la storia del Quirinale la sua missione non sarà più la stessa. Il «dictator» è scomparso. Lo si vede anche nel dibattito sul nucleare, punto strategico sul futuro energetico. Parla Salvini, parla Letta, rimbalza il sì e il no, si accende lo scontro politico e tutto questo passa sulla figura di Draghi.

È fuori dal gioco. È come se improvvisamente il futuro non fosse più lui. Sta a Draghi ritrovarlo, riscoprendo lo spirito della primavera scorsa, mettendo i partiti davanti alle proprie responsabilità. Non tutto il tempo è perduto.

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