Fra l'incoronazione di Emmanuel Macron al Louvre sulle note dell'Inno alla gioia e i lacrimogeni sparati ieri per impedire ai manifestanti di entrare all'Eliseo sono passati diciotto mesi e spiccioli.
Fra il 40,8% fatto segnare alle Europee 2014 dal Pd e la sconfitta del referendum a cui sono seguite le dimissioni di Matteo Renzi, trattato da appestato da un intero Paese, erano passati diciotto mesi e spiccioli.
Non si sa cosa accadrà fra dieci mesi e spiccioli in Italia, ma è il caso che Di Maio e Salvini (e Conte, il premier a sua insaputa) comincino a rifletterci su, perché l'Europa è entrata nella nuova era del facile innamoramento collettivo e della fulminea inversione a U del consenso. Che ormai è merce deperibile con data di scadenza ravvicinata.
L'emotività delle masse è scoperta di inizio '900. La novità è la rapidità con cui ormai gli elettori chiudono le linee di credito politico ai leader, come banche che non pretendono garanzie per un fido, ma ti chiedono di rientrare in un battibaleno. Questo accade per ogni «nuovo» che riesca a far breccia. Un tempo si diceva che fra il partito egemone e la sua base era «finita la luna di miele». Oggi è già tanto se finisce la prima notte di nozze. Poi si passa agli avvocati e ai divorzi, sempre cruenti.
Molto ha a che fare con la crisi generale delle categorie classiche di sinistra socialista e destra conservatrice o moderata. Il loro declino, le risposte balbuzienti a temi enormi come la crisi economica, il rapporto con l'Europa o l'immigrazione, hanno spianato la strada a chiunque si presentasse come alieno, rottamatore, nuovo che avanza. «En marche», appunto. È accaduto in Italia col piacione Renzi, in grado di stregare (quasi) tutti. È accaduto in maniera ancor più esplosiva in Francia, con le code ad iscriversi al movimento di Macron, idolo rampante e vincente della post-grandeur. È accaduto di nuovo a marzo in Italia, con Lega e Movimento 5 Stelle salutati come folate di aria fresca su un Paese stantio.
Quel che sembra avvantaggiare i gialloverdi, che ancora viaggiano sulla cresta dell'onda con gradimenti intorno al 60%, è la visione del mondo di cui sono portatori. Macron è planato sull'Esplanade di Parigi dal mondo della finanza, ha promesso riforme all'insegna della sburocratizzazione, prospettato un futuro di efficienza. Elitario e potenzialmente illuminato, ha detassato i beni di lusso e le rendite sui grandi patrimoni, invitando bruscamente gli operai a darsi da fare. Solo che al di là di certe sceneggiate anti-italiane sull'immigrazione non ha portato a casa nulla. E se un oligarca non crea benessere per il popolo che in fondo disprezza, alla fine finisce rovesciato. Dalle urne, oppure dalle piazze. Che si riempiono di 250mila «gilet gialli» come capitato in Francia, dove la benzina più cara fa bruciare il consenso più in fretta.
Invece il governo italiano - in questo tempo politico accelerato e lunatico - è per certi versi più stabile in prospettiva. La sua scommessa è più conservativa, perché si pone come difensore della «gente» e la «gente» è maggioranza. Il reddito di cittadinanza è l'opposto di Macron che invita il disoccupato ad «attraversare la strada per cercarsi un lavoro». E l'Inno alla gioia simbolo dell'Europa è un capro espiatorio, non qualcosa per cui lottare. Così, a parità di consenso ondivago, i populisti hanno il vantaggio di potersi fare giunco davanti alla tempesta, perché tanto la colpa di ogni fallimento sarà sempre di qualcun altro, appollaiato in oscuri manieri fra Bruxelles e Strasburgo.
Il che comunque non mette i gialloverdi al riparo dallo Zeitgeist generale. Lo ripete da mesi Giancarlo Giorgetti: «Ho detto ai miei di tenere una foto di Renzi in ufficio, per ricordare come si passi velocemente dal trionfo alla sconfitta». La sensazione però è che Giorgetti sia l'unico ad aver capito che neppure i populisti possono godere della fiducia infinita del popolo. E che nonostante l'apparente invincibilità del governo, a forza di disattendere le promesse (flat tax e pensioni) anche in Italia comincerà ad andare di moda il gilet.
Di sicuro non per mettere a ferro e fuoco le città, ma forse solo per votare un po' più eleganti e un po' meno illusi.Perché per diventare maggiorenni servono diciotto anni, ma per smettere di credere alle favole bastano diciotto mesi e spiccioli.
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