«Pronto, Gianfranco? Sono Giorgia». Risale a pochi giorni fa, raccontano i bene informati, la telefonata di appeasement che agita le acque a destra.
Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d'Italia, ha cercato l'ex fondatore di An, nonché presidente della Camera, (nonché molte altre cose) Gianfranco Fini. Una rimpatriata tra vecchi amici? Non proprio: lui l'ha definita, non molto tempo fa, «una ragazzina sconclusionata e presuntuosa che si è montata la testa». Lei, in compenso, gli ha lanciato anatemi da brivido: «Fini è quello che ha ammazzato la destra italiana. È la negazione di tutto quello che noi abbiamo rappresentato. Si è fatto rappresentante degli interessi della grande finanza, delle lobby e della massoneria» e via elencando.
Quindi, perché questo improvviso riavvicinamento, che sta mettendo in fibrillazione non solo i «meloniani», ma anche quegli ex finiani che sono già da tempo passati con Fratelli d'Italia? C'è chi spiega che l'ex leader di An, ormai fuori dalla politica e impegnato in poco simpatiche vicende processuali (ricordate la casa di Montecarlo e i rapporti con il faccendiere Corallo?), sia ancora il riferimento di qualche politico di provincia in grado di muovere pacchettini di preferenze. E che, alla vigilia di elezioni importanti come le Europee, che oltretutto prevedono il quorum del 4 per cento per entrare nel Parlamento di Strasburgo, quelle poche migliaia di voti possono fare comunque la differenza. Del resto Giorgia Meloni sta già rastrellando piccoli ras delle preferenze locali in giro per l'Italia, anche grazie all'acquisito Raffaele Fitto, pugliese, che, dalla Calabria dell'ex forzista Pino Galati alla Sicilia dell'ex governatore Raffaele Lombardo, prova a tessere reti elettorali in giro per il Sud.
Chi conosce la geografia interna alla destra italiana, nelle sue mille siglette e scissioncine, sostiene però che gran parte del personale politico finiano sia già emigrato verso lidi più fertili: in Campania con la Lega, che ha fatto incetta di orfani di destra anche estrema; in Sicilia con il governatore Nello Musumeci e così via. Del resto Fini, dopo lo schianto elettorale di Futuro e Libertà nell'alleanza con Scelta Civica e dopo il rinvio a giudizio, è pressoché scomparso dalla scena politica. L'ultima sua apparizione pubblica risale al febbraio scorso, quando, da ex presidente della Camera, partecipò alla commemorazione solenne del suo mentore Pinuccio Tatarella.
Ma c'è un altro ambito nel quale un riavvicinamento tra Meloni e Fini potrebbe avere un peso. E si tratta della Fondazione An, che controlla il patrimonio dell'ormai defunto partito fondato da Fini sulle ceneri del Movimento sociale italiano e che ha sede nello storico palazzo di via della Scrofa, nel cuore di Roma. Un patrimonio tutt'altro che trascurabile: tra liquidi (circa 30 milioni) e immobili (si tratta soprattutto di decine di vecchie sezioni Msi, in giro per l'Italia) la cifra complessiva oscilla tra i 20 e i 50 milioni.
Nel CdA che la amministra, e che comprende tutte le varie anime di An (ne fanno parte big dell'ex partito come Maurizio Gasparri o Ignazio La Russa), Giorgia Meloni ha già la maggioranza, ma potrebbe - si spiega - avere interesse ad acquisire gli ex finiani per rafforzarsi.
Personaggi che sono stati molto vicini al fondatore di Alleanza Nazionale e oggi siedono in Cda: come Italo Bocchino (oggi direttore editoriale del Secolo, il giornale diretto da Francesco Storace e finanziato dalla Fondazione per 800mila euro l'anno), Roberto Menia o Antonio Tisci.
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