Magari i puristi della Ue liquideranno questo ragionamento con una smorfia di sufficienza come se la Commissione Europea o il Parlamento di Strasburgo fossero templi in cui bisogna sempre dire «sì», perché nella loro testa l'europeismo è un'ideologia o addirittura una religione. Ma non è così: in Europa tutti trattano, tutti mercanteggiano. La Germania, come la Francia oppure l'Ungheria. È il profilo dell'Unione finché non si faranno altri passi nel processo di unificazione. In quest'ottica è davvero stucchevole la polemica nostrana sul Mes, sul fatto che l'Italia sia l'unico Paese a non aver ancora ratificato l'intesa, perché la questione dovrebbe essere affrontata con gli occhi rivolti ad altri temi che dovrebbero stare a cuore, non solo al governo, ma anche all'opposizione visto che investono «l'interesse nazionale» (espressione tanto usata nel nostro Parlamento quanto disattesa).
Parlo della riforma del Patto di stabilità, del Pnrr, della piattaforma Step e in ultimo della possibilità di avere nel board della Bce un altro italiano in sostituzione di Fabio Panetta che è stato nominato al vertice di Bankitalia, il che non è per nulla scontato.
Ora, per squarciare il velo di ipocrisia che spesso avvolge discussioni in cui i dati di fatto si confondono o vengono stravolti da quell'approccio ideologico che fa parte della nostra tradizione, è naturale, scontato che alla fine l'Italia per bocca di questo governo dirà il fatidico «sì» al Mes, magari con il preambolo che non lo utilizzerà né oggi, né mai. Ma quella firma, che potrà apparire scabrosa per chi fino a ieri era fieramente anti-europeista (magari anche per pura speculazione elettorale), nella logica dell'interesse nazionale deve portarci in primo luogo qualcosa in cambio su altri tavoli: il vero bilancio di questa partita si farà non tanto guardando al Mes, ma se sulla riforma del patto di stabilità peserà l'ipoteca tedesca o se avremo Piero Cipollone a Francoforte al posto di Panetta. È la logica del «do ut des»? Sì, e non c'è nulla da vergognarsi, perché la Ue è sempre stata un mercato. Inutile girarci intorno. Quando ce ne siamo dimenticati abbiamo accettato un cambio lira-euro per entrare nell'Unione monetaria che ci ha penalizzato non poco (Prodi). Quando lo abbiamo tenuto ben presente e i giochi sono stati condotti da quel principe del pragmatismo che era Silvio Berlusconi, siamo riusciti a portare Mario Draghi alla presidenza della Bce.
Ecco perché in questa storia stona chi guarda al Mes con gli occhi dell'ideologia, dandogli un'importanza che non ha. E contemporaneamente stecca chi vuole il «sì» solo per stigmatizzare il cambio di linea sull'argomento di pezzi dell'attuale maggioranza. È un modo infantile per affrontare le tematiche europee che privilegia la polemica politica rispetto ad un discorso onesto su quello che giova o non giova al Paese. Per dirne una: la riforma del patto di stabilità può pesare molto di più del Mes (che possiamo decidere di non prendere mai) sul nostro futuro.
Motivo per cui se per usare il nostro «sì» al Mes come merce di scambio su altri tavoli è necessario ritardare la firma, non c'è nulla di sconveniente in questa tattica. Altri Paesi hanno fatto di peggio. Basti pensare al capitolo immigrazione. Quindi, non abbiamo proprio nulla di cui scusarci.
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