Cronache

"La mia vita con il capo banda". Ecco i segreti sulla Uno bianca

Il libro autobiografico di Eva Mikula curato dal giornalista Marco Gregoretti: la ex di Fabio Savi racconta tutto, pubblico e privato, dei trentatré mesi accanto al capo della banda

"La mia vita con il capo banda". Ecco i segreti sulla Uno bianca

Vuoto a perdere, verità nascoste sulla Banda della Uno Bianca” è il titolo del libro autobiografico di Eva Mikula curato dal giornalista Marco Gregoretti. Già disponibile online e nella versione cartacea. Duecentocinquanta pagine, quattordici capitoli con foto e documenti, dove la ex di Fabio Savi racconta tutto, pubblico e privato, dei trentatré mesi accanto al capo della banda accusata di aver ucciso ventiquattro persone e di averne ferite centodue, della sua vita da ragazza, delle settimane sotto scorta e delle assoluzioni nei tre gradi di giudizio. E, soprattutto rivela la vera storia della cattura dei criminali. Ecco, in anteprima per IlGiornale.it gli stralci di due capitoli di Vuoto a perdere dove Eva Mikula spiega il suo ex, nonché capo della Banda della Uno bianca, visto da vicino.

“Guardavo Fabio ammirando ogni suo gesto, tutto era nuovo ed emozionante per me: la mattina mentre si faceva la barba, come si vestiva, quello che raccontava e come lo raccontava. Era un’emozione reciproca, perché anche lui era incuriosito da me, dalla mia gestualità, dal mio piccolo mondo di ragazza che cresceva e che diventava donna. Mi scrutava con la coda dell’occhio quando mi mettevo il rossetto. Sorrideva perché vedeva che me lo passavo anche sulle guance e lo spalmavo con le dita. Facevo lo stesso sulle palpebre. Prima di andare a dormire mi lavavo i calzini e la mutandina. Lui non capiva, poi si accorse che ne avevo solo un paio di entrambe. L’unico make-up era il rossetto. Ancora non so se lui era affascinato da questa mia dimensione, oppure se gli facevo pena, fatto sta che cominciò a fare avanti e indietro dall’Italia, con cadenza quasi settimanale. Mi chiedeva se mi sarebbe piaciuto andare a vivere con lui. Voleva sapere dettagli sulla mia famiglia: ma a 16 anni avevo ben poco da raccontare. Per lui era importante sapere che io fossi sola, che nulla potesse intralciarlo, ma questo lo scoprii solo molto tempo dopo. Diedi poco peso alla sua insistente richiesta di informazioni sui legami familiari. Lui per me, rappresentava la certezza. Tutti i giorni, a un orario convenuto da una cabina telefonica lo chiamavo al telefono di casa, dove viveva con la moglie e con un figlio. Se finivano le monetine, lui mi ritelefonava. Andò avanti così per un mese e mezzo, finché un giorno dall’altra parte del filo mi rispose una voce di donna infuriata che mi insultava. Fabio le tolse di mano la cornetta e le disse di non intromettersi. Ho riagganciato sbattendo la cornetta del telefono e me ne andai via piangendo e con la fastidiosa sensazione di essere stata presa in giro: il matrimonio non era ancora finito, come invece mi aveva fatto credere Fabio. Mi disturbava l’idea che litigassero e si separassero a causa mia, anche perché avevano un bambino piccolo. Decisi quindi di non chiamarlo più. Non me lo aspettavo, eppure accadde; erano passate due settimane dall’ultima telefonata con Fabio e io poco a poco cercavo di ritrovare serenità dentro di me. Una sera, tornando a casa dal lavoro, notai la sua auto sotto la palazzina dove abitavo. Sì, era proprio la Lancia Thema nera sulla quale ero già salita altre volte. Controllai la targa, era italiana”…

Eva Mikula

“Per me il problema diventò molto serio, avevo veramente sbagliato le parole. Fabio temeva che se mi avesse lasciato andare, io non avrei taciuto sui segreti della banda della Uno bianca, almeno quelli che conoscevo direttamente, decretando così la loro fine. Mi guardò pieno di rabbia e di veleno e mi sfidò: “Fallo adesso! Dai chiama il 113, coraggio fammi vedere di cosa sei capace!”. Con violenza mi prese per un braccio, stringendomelo, e mi trascinò con forza davanti al telefono pubblico dell’autogrill, il mio vantaggio del fattore campo si era improvvisamente azzerato. Il suo sguardo terrorizzante era fisso sui miei occhi, quasi come stesse cercando di leggermi nei pensieri, con una mano mi teneva stretta sotto l’ascella, con l’altra mi puntava la pistola al fianco destro. Avevo paura, pensavo di essere giunta al capolinea della mia vita, ma non lo feci vedere perché ero pronta a morire, pur di non proseguire con lui. Con la mano libera presi la cornetta del telefono, la alzai e composi il numero 113. Rimase di stucco, non ci voleva credere, e quando sentì che una voce aveva risposto, schiacciò il gancio per riattaccare e mi spinse fuori dall’autogrill, al buio, nel parcheggio in mezzo ai camion. “Ok” pensai, “per me è finita qui”, vidi la morte in faccia. “Che cosa vuoi fare?” gli chiesi con voce tremante. Lui restava in silenzio e continuava a spingermi verso il buio, sul retro dell’autogrill. Cercavo di calmarlo “Non ti agitare, non serve, parliamone”. Per accendersi una sigaretta allentò la presa sul mio braccio. Mi divincolai con uno scatto e cominciai a correre a perdifiato. Correvo verso la luce dell’autogrill e aspettavo il rumore dello sparo e l’arrivo veloce e violento del proiettile nella carne. Correvo muovendomi a zig, zag. Riuscii a entrare all’interno del bar dell’autogrill, rallentando il passo e trattenendo il fiatone, mi rimisi seduta al tavolo. Appoggiavo per terra la punta dei piedi e fissavo il cameriere, gli stavo gridando aiuto con lo sguardo. Ero esausta, disperata, stravolta e piangevo. Il barista capì, si accorse che qualche cosa non andava per il verso giusto. Arrivò anche Fabio che, stranamente, si sedette con le spalle rivolte all’ingresso.

Stavolta ero io di fronte a lui che potevo osservare chi entrava e chi usciva. Era stato proprio Fabio a spiegarmi, quando facevamo i viaggi in Ungheria, che a quell’ora c’era il cambio di turno delle volanti della Polizia stradale, e che, quando avveniva, i poliziotti, per consuetudine, entravano nei bar degli autogrill a prendere il caffè”…

Vuoto a perdere di Eva Mikula

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