Scena del crimine

Il mostro "come Dracula" che voleva "vedere il sangue"

Tra il 1985 e il 1992 cinque donne vennero uccise a coltellate. Per i loro omicidi Marco Bergamo venne condannato a quattro ergastoli e 30 anni di carcere. Era lui il "mostro" di Bolzano

Quel mostro "come Dracula" di Bolzano che voleva "vedere il sangue"

"È come Dracula: vuole vedere il sangue". E Marco Bergamo aveva visto parecchio sangue. Era quello appartenente alle cinque vittime per cui è stato condannato a quattro ergastoli e 30 anni di carcere nel 1994. Fu infatti ritenuto colpevole di una serie di omicidi, tutti di donne, la maggior parte molto giovani, accomunati da un identico modus operandi: "Numerose coltellate inferte con contatto proveniente dalle spalle, in luoghi appartati", ha spiegato a IlGiornale.it la criminologa Rosa Francesca Capozza. Così, nella zona di Bolzano, un serial killer seminò il panico dal 1985 al 1992, fino a quando non venne fermato dalle forze dell'ordine.

L'omicidio Zorzi

Era il 6 agosto del 1992. Era passata da qualche decina di minuti la mezzanotte quando alla croce bianca arrivò una telefonata. Una ragazza era stata vista agonizzante sul ciglio della strada che da Bolzano porta al Monte Pozza, forse investita da un'auto. Quando giunsero sul posto i soccorritori individuarono il corpo di una giovane donna riverso in una pozza di sangue. Addosso aveva solo una maglietta bianca e una scarpa. E non era stata investita. Il medico che condusse l'autopsia infatti riscontrò 26 ferite da arma da taglio, principalmente al tronco: la ragazza era stata accoltellata ed era morta per dissanguamento. Il suo assassino, dopo averla colpita in un altro luogo, l'aveva abbandonata lungo la strada. Nella borsa trovata vicino al corpo non c'erano i documenti, ma la donna venne identificata quasi subito: si trattava di Marika Zorzi, 18 anni, che all'epoca si alluse facesse la prostituta, ma i genitori negarono sempre quest'eventualità.

La caccia al killer scattò immediatamente. Due testimoni riferirono di essere passate quella notte lungo la strada in cui venne ritrovata la ragazza e di aver incrociato un'altra macchina, una Seat Ibiza rossa. Non solo. Riferirono anche di essere riuscite a prendere alcuni caratteri della targa dell'auto. In più gli investigatori erano riusciti a risalire al luogo dell'omicidio, dove trovarono un paravento di plastica, staccatosi da una macchina, che risultò perfettamente applicabile a una Seat Ibiza.

Così polizia e carabinieri si organizzarono in diversi posti di blocco nella speranza di intercettare la macchina del killer. Mancavano pochi minuti alle sette di mattina quando una pattuglia incrociò una vettura. Si trattava proprio di una Seat Ibiza rossa. La targa poteva corrispondere a quella vista dalle testimoni, dal sedile anteriore destro mancava l'imbottitura e il parabrezza era ammaccato. Alla guida c'era Marco Bergamo, un ragazzo coi baffi poco più che ventenne, che non fece alcuna resistenza e, su richiesta, aprì il bagagliaio: dentro c'erano abiti con macchie di sangue. Bergamo venne condotto in questura e alcuni agenti si recarono a casa sua per la perquisizione. Lì vennero individuati diversi coltelli. "Nella sua camera - raccontò al Corriere dell'Alto Adige l'allora capopattuglia Alessandro Arervo - fu rinvenuta una piantina di Bolzano, sulla quale era indicato il percorso da casa di Marcella Casagrande alla scuola evidenziato con un evidenziatore. Ebbi un sussulto: ricordavo il fatto perché intervenni come agente della Volante e fino ad allora era un omicidio mai chiarito. Non avevamo mai identificato l'autore".

Gli inquirenti raccolsero le prove della colpevolezza di Bergamo, che poco dopo confessò di aver compiuto il delitto del 6 agosto 1992: "Intorno alle 24 ho fatto salire nella zona della concessionaria Renault di via Renon in Bolzano una prostituta di nome Marika Zorzi - si legge nei verbali riportati dal giornalista Paolo Cagnan nel libro 'Marco Bergamo. Tutta la verità sui delitti di Bolzano' - Giunti sul posto abbiamo dapprima parlato un po' del più e del meno e quindi io mi sono spogliato per consumare con lei il rapporto che avevamo pattuito". A Bergamo mancava un testicolo, asportatogli poco tempo prima a causa di una malattia. Stando al racconto dell'uomo, Marika avrebbe reagito deridendo: "Mi ha detto che ero un mezzo uomo". A quel punto sarebbe scoppiata una lite. "Mi era esplosa fuori una rabbia interiore ed ho preso da dietro il mio posto macchina un coltello - rivelò il killer - ed ho iniziato a colpirla". Ma non ricordava altro.

Il "mostro" di Bolzano

Da omicida a serial killer. In poco tempo Marco Bergamo venne sospettato di aver compiuto altri delitti, simili a quello della Zorzi: quattro omicidi in particolare vennero richiamati alla memoria degli inquirenti dal modus operandi usato dal killer e dal genere delle vittime, tutte donne, anche giovanissime, molte delle quali si prostituivano o conducevano un vita sregolata. "Nel caso del mostro di Bolzano - ha spiegato a IlGiornale.it la criminologa Capozza - è evidente e chiaramente individuabile il modus operandi che lo contraddistingue, ovvero le modalità esecutive prevalentemente impiegate dal criminale per realizzare il reato: numerose coltellate inferte con contatto proveniente dalle spalle, in luoghi appartati". Pochi mesi prima della morte di Marika, erano state uccise a coltellate Renate Rauch e Renate Troger, la prima colpita nel parcheggio di un'area di servizio e la seconda abbandonata sul ciglio della strada.

Renate Rauch aveva 24 anni. A 16, come ricorda Paolo Cagnan nel suo libro, la ragazza si era invaghita di un uomo più grande di lei, con il quale era andata a vivere. Lui si bucava e lei lo avrebbe seguito lungo questa strada, tanto da iniziare a prostituirsi per procurarsi i soldi necessari ad acquistare la droga. Erano circa le 23 del 7 gennaio del 1992 quando il corpo di Renate venne ritrovato, abbandonato nel parcheggio di un'area di sosta di Bolzano dove le prostitute erano solite appartarsi coi propri clienti. L'assassino aveva colpito la ragazza con 24 coltellate, la prima sferrata mentre la vittima si trovava di spalle, in macchina. Nessuna traccia di violenza sessuale.

Qualche giorno dopo sulla tomba della Rauch era comparso un biglietto, che recitava: "Mi dispiace, ma quello che ho fatto doveva essere fatto e tu lo sapevi. Ciao Renate. M.M". Non appena Bergamo venne arrestato per l'omicidio Zorzi, quel pezzo di carta venne preso nuovamente in considerazione, per confrontarne la grafia con quella dell'assassino di Marika: venne accertata la corrispondenza. Così Guido Rispoli, il sostituto procuratore a cui era stata affidata l'inchiesta, si presentò da Bergamo per interrogarlo, mostrandogli il biglietto scritto da lui e ricordandogli di avere anche altre prove che lo collegano alla morte della Rauch: una giacca sporca di sangue, la testimonianza di una donna che sosteneva di aver visto un'auto rossa e il sospetto che un uomo biondo coi baffi (come Bergamo) importunasse la vittima. Fu a quel punto che il killer confessò: "Sono stato io a scrivere tale biglietto e sono io il responsabile dell'omicidio di Renate Rauch", si legge nel verbale riportato nel libro di Cagnan. Bergamo però dichiarò di non ricordare cosa fosse successo al momento del delitto.

Renate Troger aveva solo 18 anni quando venne ritrovata, il 21 marzo 1992, sul ciglio della strada che porta al Brennero. L'assassino l'aveva sgozzata, dopo aver cercato di strangolarla, poi l'aveva colpita con 15 coltellate, tutte al torace e all'addome, e l'aveva abbandonata a bordo strada. La vittima era completamente vestita e sul suo corpo non venne riscontrato nessun segno di violenza, né di difesa. Nella zona tutti conoscevano Renate, che si aggirava tra bar e discoteche, spesso alla ricerca di sigarette: una vita sregolata, ma niente a che vedere con droga e prostituzione. Nella Seat Ibiza di Bergamo vennero ritrovate delle corde con delle tracce di sangue, forse usate per strangolare la ragazza. In più, le modalità dell'omicidio erano identiche a quelle dei delitti Zorzi e Rauch. Nonostante gli elementi a carico dell'indagato, l'uomo non confessò mai di aver ucciso Renate Troger.

Marco Bergamo mostro di Bolzano

In pochi mesi tre omicidi si erano succeduti e avevano portato gli inquirenti a sospettare dell'esistenza del "mostro" di Bolzano. Ma non era finita. Sette anni prima infatti altri due delitti erano stati compiuti con modalità simili.

Il primo risale al 3 gennaio 1985, quando il corpo della 15enne Marcella Casagrande venne ritrovato in casa, in un lago di sangue. Quel giorno, Marcella era andata dai nonni a pranzo dopo la scuola ed era poi rientrata a casa nel pomeriggio, dopo le 15. La madre sarebbe tornata dal lavoro meno di un'ora dopo. Fu proprio lei a trovarla, non appena aprì la porta dell'appartamento. L'assassino l'aveva uccisa a coltellate: ne vennero individuate 21, prevalentemente alla testa e all'addome. Le mutandine della ragazza erano state tagliuzzate, ma non c'era stata violenza. Accanto al corpo, c'era un teleobiettivo di una macchina fotografica, dettaglio che si rivelò fondamentale per collegare Marcella al "mostro". Bergamo infatti era appassionato di macchine fotografiche e si recava spesso al negozio vicino a casa della ragazza.

Fu ancora Rispoli che, interrogando Bergamo, raccolse la sua confessione per l'omicidio della 15enne: "Ammetto di essere responsabile dell'omicidio di Casagrande Marcella", disse Marco Bergamo. E raccontò di essersi recato a casa di Marcella intorno alle 14.30 di quel 3 gennaio. Parlando di fotografia, la ragazza avrebbe fatto vedere al suo assassino un obiettivo fotografico. Poi, dopo una telefonata con un'amica, Marcella aveva chiesto a Marco di andare via, spingendolo verso la porta: "Ho perso il controllo - si legge nel verbale riportato da Cagnan - ed ho tirato fuori dalla tasca dei pantaloni il coltello a scatto". Fu a quel punto che Bergamo inizio a colpire la ragazza.

Il secondo delitto attribuito al "mostro" di Bolzano risale al 26 giugno 1985. Annamaria Cipolletti, ex insegnante 41enne era stata ritrovata morta in un appartamento dove si recava per ricevere i clienti. Annamaria infatti aveva una doppia identità: era anche Mirella, una prostituta che riceveva su appuntamento proprio in quell'appartamento. Venne trovata sdraiata sul letto in un lago di sangue. Anche lei uccisa a coltellate, 19 questa volta, tutte all'altezza del torace a esclusione di una alle spalle, forse la prima. Nonostante i punti in comune con gli altri omicidi, il procuratore non riuscì a far confessare Bergamo, che si professò sempre innocente in relazione al delitto Cipolletti.

Tra i primi due delitti e quelli successivi ci fu una pausa di sette anni: "Si tratta del cosiddetto cooling off - ha spiegato l'esperta - ovvero di un periodo di raffreddamento o scarico emozionale, in cui il serial killer si astiene dalla commissione di altri delitti. Può essere un periodo di durata variabile a cui fa seguito il nuovo imporsi di un’altra fantasia sadica, di una fase di progettazione, di identificazione della vittima, di appostamento, di pedinamento, cattura, morte". Nel caso del "mostro" di Bergamo, la pausa potrebbe essere stata dovuta da fattori esterni: "Pare che i genitori, assaliti da dubbi e sensi di colpa, avessero sottoposto il figlio a un serrato controllo in casa".

La paura delle donne

Gli inquirenti indagarono a lungo anche sulla personalità di Marco Bergamo, che fin da ragazzo aveva dovuto fare i conti con diversi problemi di salute, dall'obesità a una malattia della pelle, fino all'asportazione di un testicolo. Nessuna fidanzata, nessun amico. Una collezione di riviste pornografiche e una di coltelli. Alcuni testimoni lo avevano visto masturbarsi alla finestra e, in qualche caso, era sparita della biancheria intima femminile dagli stendini del palazzo in cui Bergamo abitava.

Una prostituta aveva dichiarato di conoscere l'uomo come suo cliente: "Bergamo mi chiedeva solo di spogliarmi - disse, come riportato in 'Marco Bergamo. Tutta la verità sui delitti di Bolzano' - Gli bastava osservare la biancheria intima che indossavo. Mentre mi spogliavo, lui si toccava i genitali e restava lì a guardarmi". Dalle perizie emerse un timore e un odio profondo verso le donne, vittime privilegiate del "mostro" di Bolzano, su cui riversava i suoi sentimenti.

"La specificità delle vittime, ovvero donne e prevalentemente prostitute, parla di un odio profondo del Bergamo nei confronti delle donne - ha spiegato la criminologa Capozza - sentimento criminologicamente correlato con un rapporto disfunzionale in primis con la propria madre, che rappresenta il prototipo della figura femminile. La cronaca ricostruisce un'infanzia difficile di Bergamo, condita da ritardo nell’apprendimento del linguaggio, disturbi alimentari e un progressivo senso di introversione, solitudine ed estraneità dal mondo. Il disagio psichico vissuto alimenta una rabbia devastante, che prende la forma di pseudo-risoluzione in una modalità fortemente sadica di relazione con la donna. Le possibili esperienze sessuali o sentimentali fallimentari acuiscono il senso di inadeguatezza e impotenza esperiti, aggravati dall’asportazione di un testicolo a causa di un tumore che segna negativamente l’immagine che Bergamo ha di se stesso e della propria virilità. Il rifiuto o lo scherno, reale o immaginario, sperimentato nelle sue esperienze pregresse e nei contatti con le vittime, rappresentano la goccia che fa traboccare il vaso del disagio, trasformando Marco Bergamo in un assassino seriale".

Ma, nonostante questo sentimento nei confronti delle donne, il "mostro" non violentò mai le sue vittime. La donna infatti oltre a suscitare in lui odio, rappresentava anche "la paura di non essere all'altezza, come diceva lo stesso". Inoltre, come spiega la criminologa Capozza, "non violentare le sue vittime rappresentava un modo per proteggersi dalla paura o dalla reale constatazione di non riuscire a completare l’atto sessuale, rischio che avrebbe ancor più acuito il senso di disagio, impotenza, frustrazione e rabbia, poiché ritenuto altamente lesivo dell’immagine di sé come uomo. Ucciderle invece rappresentava la modalità più forte, totalizzante, sicura e definitiva di possedere la donna".

La "battaglia" delle perizie

Una volta individuato il serial killer, si pose il problema di stabilire la presenza o meno della capacità di intendere e di volere al momento dei delitti. Venne chiamato Francesco Introna, direttore dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Padova, che a fine febbraio del 1993 consegnò la sua perizia, nel quale evidenziava l'incapacità di intendere e di volere di Bergamo, riconoscendo anche un disturbo sessuale e un odio verso le donne.

Al contrario, Enzo Conciatore, nominato dall'accusa per un'ulteriore perizia, considerava il killer capace di intendere e di volere e quindi pienamente imputabile. Secondo il perito, i delitti compiuti dal "mostro" sarebbero stati una forma di "sadismo sessuale", che avrebbero rappresentato una forma di "omicidi per libidine". Sarebbero state false anche le amnesie legate ad alcuni omicidi. Il black out, ha chiarito la criminologa Capozza, è una "rimozione, ovvero un preciso meccanismo intrapsichico di difesa, volto a tutelare il soggetto dalla consapevolezza di esperienze inaccettabili altamente dolorose e traumatiche". Ma in un caso come quello del "mostro" di Bolzano, "vista la serialità e brutalità degli omicidi che si perpetuano con il medesimo modus operandi, appare poco probabile l’attivazione di tale meccanismo".

Nel giugno del 1993 il sostituto procuratore Guido Rispoli chiese il rinvio a giudizio di Bergamo per i cinque omicidi di Marika Zorzi, Renate Rauch, Renate Troger, Marcella Casagrande e Annamaria Cipolletti. Tre i casi per i quali c'era la confessione dell'assassino, diversi gli elementi che accomunavano i delitti e le prove a carico di Bergamo, dalle perizie alle modalità degli assassinii, fino alle macchie di sangue e alle incongruenze nei racconti.

Così il giudice accolse la richiesta e il 27 settembre 1993 iniziò il processo con la prima udienza, riportata dall'Unità del tempo, durante la quale vennero esposte le due perizie contenenti due tesi completamente discordi. Venne quindi chiesto un terzo parere, che il giudice affidò a tre esperti: Francesco Bruno, Ugo Fornari e Gianluigi Ponti. Al termine delle proprie considerazioni, i tre esperti conclusero che Bergamo non aveva "nessuna infermità mentale" e per questo era consapevole delle proprie azioni, anche al momento degli omicidi. "Bergamo è giunto alla perversione estrema: l'omicidio per godimento - si legge nel testo del documento, riportato da Cagnan - Dopo il primo assassinio ha scoperto che uccidendo appagava il suo piacere e nello stesso tempo distruggeva l'oggetto temuto e odiato: la donna".

Così l'8 marzo 1994, nel giorno della festa della donna, la Corte d'Assise di Bolzano dichiarò Marco Bergamo colpevole per tutti e cinque i delitti a lui attribuiti, e venne condannato all'ergastolo, con un isolamento diurno di 3 anni. Esclusa la premeditazione per il delitto Casagrande. Per questo Bergamo venne condannato a quattro ergastoli e 30 anni di carcere. Successivamente, nel 2014, il tribunale respinse la sua richiesta di essere giudicato con il rito abbreviato, possibilità non permessa all'epoca dei delitti. Ma, secondo la Corte, Bergamo non aveva diritto al rito abbreviato dato che questa modalità di giudizio non era prevista per reati che avessero come pena l'ergastolo. L'impossibilità della riduzione della pena venne confermata anche dalla Cassazione. Bergamo tentò anche la strada della revisione del processo, come rese noto l'Ansa, annunciando di voler ritrattare una delle confessioni rilasciate agli inquirenti all'epoca dell'arresto.

Qualche anno dopo, nel 2017, il "mostro" di Bolzano morì, dopo essere stato ricoverato qualche giorno in ospedale a causa di una malattia polmonare. Dal giorno del suo arresto rimase sempre in carcere. Mai un segno di pentimento.

Sarebbe stata possibile, allora, una riabilitazione? "La rieducazione di un serial killer rappresenta l’esito di un percorso di riabilitazione psicosociale impegnativo e lungo, in cui il riconoscimento del disvalore etico e sociale delle azioni devianti, la resipiscenza, la revisione critica del proprio operato criminoso risultano centrali e basarsi su una motivazione intrinseca al cambiamento - ha rivelato la criminologa Capozza - In Bergamo non vi era traccia di questi elementi, neanche di un pentimento, sino al giorno del decesso".

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