
Ieri l'"America Party" di Elon Musk non ha avuto successo in borsa (la Tesla ha perso il 7% a Wall Street), ma questo non significa che non possa averlo in politica almeno per le finalità per cui lo ha progettato il suo fondatore. Anzi, al di là del contributo dell'intelligenza artificiale all'idea, dell'impiego di Grok nella pianificazione delle mosse, l'operazione ha una sua ratio politica da non trascurare. Molti liquidano l'idea dicendo che nel secolare bipolarismo americano un terzo partito non ha spazio, tirano in ballo l'esperienza di un altro miliardario che si presentò alle presidenziali americane Ross Perot facendo un buco nell'acqua. Solo che il paragone non calza: Musk non vuole candidarsi alla Casa Bianca e, ci andrei piano a dire che l'esperienza di Perot fu un completo insuccesso, visto che fu decisivo in quelle elezioni, com'era nelle sue intenzioni, nella sconfitta di Bush padre e nella vittoria di Clinton. Obiettivo - quest'ultimo - simile a quello che persegue il padrone della Tesla: far perdere al suo ex amico Donald Trump il controllo del Senato e del Congresso nelle elezioni di mid-term.
Un traguardo complesso ma non impossibile. L'America Party punta, infatti, a condizionare l'elezione dei rappresentanti in alcuni Stati chiave, nelle realtà più in bilico. E non si tratta di portare in Campidoglio numeri enormi: al Senato per l'approvazione della legge di bilancio, viste le defezioni di alcuni senatori repubblicani, è stato decisivo qualche giorno fa il voto del vicepresidente Vance. Quindi basterebbe una manciata di senatori e di congressisti per centrare il bersaglio e diventare l'ago della bilancia della politica americana. Tanto più che analizzando l'affluenza alle urne degli elettori americani si scopre che nelle elezioni di medio-termine tradizionalmente mancano all'appello in media il 15% dei votanti rispetto a quelle presidenziali: sono gli americani meno legati ai partiti tradizionali, che si mobilitano solo per il voto per la Casa Bianca attratti da candidati forti che hanno una proiezione nazionale. Ebbene, se Musk che è una figura forte, che dispone di una potenza mediatica e finanziaria ragguardevole, riuscisse a portare sfruttando la sua immagine quegli elettori alle urne nelle elezioni di mid-term per favorire i suoi candidati avrebbe fatto bingo.
Del resto dopo l'uragano The Donald non è piccola la fetta di elettori disorientata, che non sa chi votare insofferente verso un partito repubblicano trumpizzato e un partito democratico che a fasi alterne o è anestetizzato, o vive fuori dalla realtà. Sono quelli che hanno bisogno di certezze, che non sono per nulla affascinati dalla pirotecnica politica sui dazi della Casa Bianca e hanno paura di fronte all'aumento del debito pubblico americano. Tutti argomenti solleticati in queste settimane da Musk.
Qualcuno dirà che forse il proprietario della Tesla che vive anche di contributi pubblici avrebbe fatto meglio a ricercare un armistizio con l'inquilino della Casa Bianca. Sarà. Ma ti puoi fidare di Trump, di un presidente che approfittando della condizione di Musk di oriundo ha minacciato di deportarlo. Che un giorno sì e un altro pure minaccia di tagliargli i sussidi. Che ha silurato il candidato che il padrone di Space X avrebbe voluto a capo della Nasa solo perché in passato aveva dato dei contributi al partito democratico (come del resto lo stesso Musk).
In fondo "la discesa in campo" dell'imprenditore sudafricano nasce dall'istinto di sopravvivenza, è un modo per proteggersi e per garantire le proprie aziende come fece Berlusconi trent'anni fa al suo esordio in politica (anche all'epoca quella decisione non fu salutata positivamente dalla Borsa) perché non si fidava della sinistra di Achille Occhetto.
Poi non è detto che il padrone di Tesla non ci prenda gusto proprio come il Cav. E poi proprio come Berlusconi, al punto a cui è giunto lo scontro con Trump, Musk non aveva scelta. Alla domanda se ci si può fidare di Donald, oggi Elon risponderebbe: "NO!".Augusto Minzolini