Il nastro adesivo e le minacce: "Ecco cosa mi ha detto il Mostro in carcere"

Michele Vinci è stato riconosciuto dalla giustizia come il Mostro di Marsala, l'uomo che nel 1971 sequestrò e uccise tre bambine siciliane

Il nastro adesivo e le minacce: "Ecco cosa mi ha detto il Mostro in carcere"

Ci sono delle cronache del passato che evocano fantasmi del presente, per via della somiglianza con alcuni casi giudiziari più recenti. Una di queste cronache è rappresentata dalla storia del Mostro di Marsala, partita con la scomparsa di tre bambine.

“Fu un fatto terribile”, commenta il maresciallo maggiore Raffaele Buonsanti, autore del volumetto La vera storia del Mostro di Marsala (Kimerik). Buonsanti, membro di una famiglia che ha votato la sua vita a servire lo Stato, negli anni del caso del Mostro fu guardia semplice nel penitenziario di Mistretta, che ospitò quello che all’epoca era solo un presunto colpevole.

Le scomparse e gli omicidi

È il 21 ottobre 1971. È una giornata come tante a Marsala. Tre bambine vanno a scuola. Sono Antonella Valenti di 11 anni e le sorelline Ninfa Marchese di 7 e Virginia Marchese di 9. Le due sorelle vivono nella casa dei nonni materni, da quando i genitori sono emigrati in Germania. È il nonno Vito Impiccicchè a presentare denuncia di scomparsa, non appena si accorge del ritardo delle bimbe.

Cinque giorni dopo, il 26 ottobre, un idraulico si ferma per strada per espletare un bisogno fisiologico. Sceglie una scuola abbandonata, mai finita di costruire: davanti a lui, contro un muro, vede una bambina senza vita. Ha la faccia avvolta dal nastro adesivo, il suo corpo è semi-carbonizzato. Si tratta di Antonella. “Se non trovo l’assassino finisco in una clinica, questo delitto non mi dà pace”, ha detto al momento della scoperta il procuratore Cesare Terranova.

Le sorelline Marchese vengono ritrovate solo il 9 novembre successivo, a seguito della confessione di un altro uomo che passerà alla storia come il Mostro di Marsala. Vengono ritrovate in un pozzo all’interno di una cava. Pare siano state buttate giù, ma un grosso strato di foglie ha attutito la caduta: le bimbe sono state soffocate dice però l’autopsia.

Le indagini e il Mostro di Marsala

Ma torniamo al 21 ottobre. Immediatamente dopo la denuncia di scomparsa, gli inquirenti iniziano le indagini a tappeto. Vengono perlustrati molti luoghi, perfino la scuola abbandonata in cui verrà trovata Antonella il giorno dopo. La bimba, lo dice l’autopsia, è morta soffocata dal nastro adesivo. Ma è stata tenuta in vita per diverso tempo, nutrita a pane, salame e cibi in scatola. Il medico che la visita nell’immediatezza dice anche che è stata stuprata violentemente, per via della mancanza dell’imene, mentre l’autopsia sostiene che la bimba sia intatta.

La pista seguita dagli inquirenti è proprio quella: la pedofilia. E c’è perfino una testimonianza, quella del benzinaio Hans Hoffman, che dichiara di aver visto, quel 21 ottobre, una Fiat 500 blu con tre bimbe all’interno che battevano con le mani sui vetri. Dopo la testimonianza però Hoffman torna in Germania. Così si fa avanti Giuseppe Li Mandri che afferma di essere stato lui alla guida della vettura, ma che non c’erano bambine. In auto ci sarebbe stato solo, molto contrariato, suo figlio, con il quale si stava recando in ospedale a trovare un parente. La moglie di Li Mandri smentisce però agli inquirenti la possibilità che in ospedale ci fosse un loro congiunto: tuttavia pochi giorni più tardi l'uomo muore in un incidente sul lavoro. Tutto da rifare per gli inquirenti.

Così le forze dell’ordine si concentrano su quello che hanno: il nastro adesivo. Emerge come lo scotch che avrebbe soffocato Antonella venga utilizzato solo in una cartiera del circondario. Qui lavora lo zio della bimba: Michele Vinci. Anche lui ha una Fiat 500 blu e il giorno della scomparsa delle ragazzine non è tornato a casa per pranzo, dice la moglie. Messo alle strette ma neppure troppo, Vinci confessa e racconta dove ha lasciato le sorelle Marchese, facendone trovare così i corpi. Per lui si aprono le porte del carcere di Mistretta.

La prima volta in carcere e la sentenza

Michele Vinci sulla copertina del libro di Raffaele Buonsanti
Michele Vinci sulla copertina del libro di Raffaele Buonsanti

A Mistretta sono ospiti solo 14 detenuti. Le guardie carcerarie non capiscono, pensano che la struttura sia in via di dismissione, invece alla fine fa il suo ingresso Michele Vinci. Per lui viene predisposta una cella imbottita da materassi, viene eliminato tutto ciò che può risultare pericoloso, perfino il rubinetto del lavandino.

Al Mostro di Marsala vengono affidate due guardie a ogni turno. Si teme che Vinci si possa uccidere o venga assalito da qualcuno. “Pensava di trascorrere la sua vita in carcere: pensavamo si sarebbe suicidato perché non vedeva altra possibilità”, racconta Buonsanti.

In carcere intanto arrivano telefonate e lettere di minacce: ai poliziotti in servizio nella struttura viene intimato che o uccideranno il Mostro oppure saranno loro a morire. “Ricevevamo telefonate anonime - aggiunge il maresciallo - Ci dicevano: ‘Ammazzatelo, o ammazziamo voi’. Non sappiamo se arrivassero da persone pericolose o da gente normale, non c’erano le tecnologie per intercettare che ci sono oggi”. Il comandante delle guardie Giuseppe Carfì dice a ognuna delle guardie: “Vinci non deve morire, lei ne risponderebbe di persona”.

Paradossalmente però, insieme alle dichiarazioni che Vinci rende agli inquirenti, si ritrova a fare delle dichiarazioni proprio agli agenti carcerari. Alcune trovano riscontro, altre no. E quando inizia il processo queste dichiarazioni si moltiplicano anche in relazione al movente: prima dice di essersi invaghito di Antonella, poi di essere stato costretto da altri, infine di aver rivelato tutto a un sacerdote che però è da poco venuto a mancare per una trombosi cerebrale.

“Il carcere aveva una popolazione molto ridotta a quel tempo - spiega l’ex guardia di Mistretta - Vinci era sorvegliato notte e giorno in una cella imbottita, praticamente un sorvegliato speciale. Una volta mi confessò che avrebbe voluto salvare le bambine nel pozzo, che aveva tirato loro una corda. E in effetti la corda fu ritrovata. Feci verbalizzare e il giudice predispose un sopralluogo”. Vinci viene condannato a 28 anni di carcere. Esce nel 2002 e lascia la Sicilia, andando a vivere in provincia di Viterbo.

Dopo il Mostro di Marsala

Caso chiuso? Non del tutto, almeno per un po’. Nel 1988 Corrado Augias dedica al Mostro di Marsala una puntata di Telefono Giallo. Durante la trasmissione, tra telefonate, accuse e smentite si parla un po’ di tutto, ma viene ventilata anche la possibilità che quello delle tre bambine sia stato un omicidio di mafia. Ma sono solo ipotesi, perché la trasmissione si attiene comunque al rispetto della tendenza per cui Vinci è il solo e unico Mostro di Marsala.

“I moventi sono rimasti un enigma - chiosa Buonsanti - La persona che fu riconosciuta come colpevole ne addusse molti. Non sembrava un assassino sanguinario, eppure la giustizia ha affermato che lui ha commesso quelle cose terribili: pensiamo per esempio ad Antonella, una bambina soffocata dal nastro adesivo a cui è stato dato fuoco”. L’anno dopo l'approfondimento di Augias però, l’allora procuratore di Marsala Paolo Borsellino riapre il caso per poi richiuderlo. Nessun nuovo elemento emerge.

Il rapimento di Antonella, Ninfa e Virginia destò, all’epoca dei fatti un grande sgomento.

Perché zio Michele ha ucciso la piccola Antonella? - scrive Buonsanti nel suo libro - Come ha potuto l’affetto di uno zio trasformarsi nella furia morbosa di un assassino”. Oggi le cronache restituiscono vicende gravi o gravissime, talvolta irreversibili come la morte, che maturano proprio in famiglia.

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