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"Capovolti sott'acqua". E in 193 non videro mai le scogliere

Il 6 marzo 1987 la nave Herald of Free Enterprise salpa dal porto di Zeebrugge con un portellone aperto e si inabissa in acque belghe a pochi minuti dalla partenza, provocando la morte di 193 persone

"Capovolti sott'acqua". Così 193 persone non videro mai le scogliere di Dover

Il 6 marzo 1987 dal porto di Zeebrugge, in Belgio, salpa la nave traghetto Herald of Free Enterprise, con destinazione Dover, in Gran Bretagna. Ma, appena partita, la nave, di proprietà della compagnia di navigazione britannica Townsend Thoresen, inizia a imbarcare acqua da uno dei portelloni e in pochi muniti si capovolge sulla murata di sinistra e si inabissa sul fondale del mare. L’incidente, il più grave a coinvolgere un'imbarcazione britannica in tempo di pace, costerà la vita a 193 persone.

La dinamica dell’incidente e "la prigione d'acqua"

La Herald of Free Enterprise era stata costruita dalla Townsend Thoresen con altre due navi gemelle, per collegare nel minor tempo possibile Dover a Calais. La nave non era stata progettata per attraccare nel porto belga di Zeebrugge, le cui invasature non permettevano di scaricare in contemporanea i garage E e G. Inoltre, per permettere agli automezzi del garage superiore di sbarcare, era necessario riempire le casse di zavorra di prua. Ciononostante nel 1987 viene introdotta la rotta Dover-Zeebrugge, e il 6 marzo la Herald of Free Enterprise salpa alle 18.05 con a bordo 80 membri dell’equipaggio, 459 passeggeri, 81 automobili, 3 autobus e 47 camion.

Ma nessuno si accorge che il traghetto è partito con il portellone di prua aperto e a causa del mancato svuotamento delle casse di zavorra e dell’aumento di velocità, la nave inizia a imbarcare acqua nel garage principale. “Successe tutto in un battito di ciglia”, ha raccontato alla Bbc News Henry Graham, membro dell’equipaggio sulla nave, che al momento dell’incidente stava lavorando nella sala ristorante. “Dai tavoli cadeva la roba, dalle finestre entrava acqua. Poi andò via la luce e tutti iniziarono a urlare e a cadere. Sembrava che il mondo fosse finito sottosopra”. Sempre alla Bbc Graham ha raccontato di essersi aggrappato a un rimorchiatore e che per anni non riuscì più a tornare in mare. La tragedia che aveva vissuto lo aveva segnato indelebilmente.

Quel giorno di marzo furono spezzate molte vite: figli che non videro mai più i genitori, mogli salvate dai mariti con un ultimo eroico atto, prima di scomparire negli abissi del Mare del Nord. Il più grande ostacolo per i sopravvissuti era il freddo. Alcuni di loro hanno raccontato di aver resistito per miracolo, ma che intorno a loro videro persone soccombere alle gelide temperature del mare. Subito dopo l'inabissamento, una draga che si trovava nelle vicinanze notò il traghetto adagiarsi sul fondale e l’equipaggio diede immediatamente l’allarme. Ma nonostante la tempestività dei soccorsi e gli sforzi per tirarli fuori il prima possibile da quella prigione d'acqua, molti dei passeggeri rimasero intrappolati all’interno della nave e perirono a causa della temperatura del mare, che sfiorava appena i 3 gradi centigradi.

Le cause del disastro e le indagini

Ma com’è possibile che una nave di quelle dimensioni e con così tanto personale a bordo salpi con un portellone aperto? La chiusura del portellone di prua spettava al tenente nostromo, Mark Stanley, sotto la supervisione del primo ufficiale di coperta, Leslie Sabel, il quale deteneva il compito di verificare che il portellone fosse chiuso, come da procedura. Ma quel giorno Stanley, una volta portati a termine i suoi compiti sulla nave, si ritira in cabina dove si addormenta, senza svegliarsi nemmeno quando viene dato il segnale di partenza. Sabel non attende l’arrivo del collega e non si preoccupa del portellone, impegnato in altre mansioni.

Nemmeno il nostromo, Terence Ayling verificherà che il portellone sia chiuso e si giustificherà affermando che quello non era tra i suoi compiti. Anche il capitano, David Lewry, affermerà a sua discolpa, di aver pensato che i portelloni fossero chiusi e che dalla sua postazione non poteva verificare di persona. Durante il processo per identificare i colpevoli del disastro, Stanley dichiara che quel giorno era stremato a causa dei turni troppo lunghi. L’inchiesta rivelò che nel 1983 la Pride of Free Enterprise, nave gemella della Herald, salpò per Dover con un portellone aperto, anche in questo caso perché il nostromo si era addormentato.

Questo precedente mise in luce le mancanze nell’organizzazione dell’intera compagnia di navigazione Townsend Thoresen, che fu ritenuta responsabile dell’accaduto. La tratta Zeebrugge-Dover veniva percorsa dai traghetti della compagnia di navigazione fino a 5 volte al giorno e i dipendenti arrivavano a effettuare turni molto lunghi e stancanti. In 90 minuti, all'arrivo in porto, bisognava far scendere i passeggeri, gli automezzi e verificare che tutto fosse in regola per la traversata successiva.

Se inizialmente quindi, venne incolpato Stanley del disastro, l’inchiesta ufficiale additò i suoi supervisori e la compagnia come i diretti responsabili delle cause che portarono alla tragedia. Le indagini stabilirono che la compagnia non aveva fornito una corretta formazione ai suoi dipendenti, cosa da cui dipese la mancanza di comunicazione tra i membri dell’equipaggio. In seguito al naufragio della Herald of Free Enterprise vennero apportare migliorie alle navi cosiddette RoRo (roll on-roll off). Questo tipo di unità venivano costruite senza comparti stagni, cosa che causò il rapido allagamento della nave e il successivo capovolgimento sul fondo del mare. Oltre a questo, le casse di prua non furono svuotate completamente, rendendo la prua più bassa sull’acqua.

In seguito all’incidente del 1987, la P&O, proprietaria della Townsend Thoresen, ritirò il marchio dal mercato, e cambiò il nome in "P&O European Ferries".

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