Non così poveri da essere aiutati

Il paradosso sociale di chi incarna l’anima e la promessa occidentale

Non così poveri da essere aiutati
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Il ceto medio è il «Punto di Tenuta» di questo Paese: il luogo sociale in cui si regge o si rompe l'Italia. Qui si misura l'equilibrio tra crescita e coesione, tra ambizione e responsabilità. Se quel punto cede, non vacilla solo una classe sociale: si incrina il patto fondativo della nostra convivenza. E oggi quel punto è sotto pressione. Il ceto medio vive un paradosso che non possiamo più ignorare: è troppo ricco per ricevere aiuti, troppo povero per costruire futuro. È la classe che regge il Paese, ma che si ritrova schiacciata dal peso fiscale, esclusa dalle tutele, ignorata nei riconoscimenti. Una dinamica che il Rapporto del Censis ci aiuta a comprendere meglio. La fotografia è chiara: la stragrande maggioranza di chi si riconosce nel ceto medio non si identifica nel reddito, ma nel sapere, nelle competenze, nei percorsi di studio. È il capitale umano il vero punto di orgoglio - e, allo stesso tempo, il punto in cui si apre la frattura. Perché ciò in cui si è creduto, su cui si è investito, oggi non trova più riscontro nella realtà economica. La competenza non è premiata. La fatica non viene riconosciuta. Quando il patrimonio culturale smette di produrre valore, quando l'impegno non genera più riconoscimento, si apre una frattura profonda tra aspettativa e realtà. Una frattura che mina le fondamenta della coesione sociale, che allenta i legami di fiducia e che rischia di spegnere il motore stesso della partecipazione civica ed economica. Tutto questo ha conseguenze molto concrete. Non parliamo di stati d'animo, ma di condizioni misurabili. Negli ultimi anni, oltre la metà degli italiani che storicamente traina il Paese ha visto il proprio reddito fermarsi, uno su quattro ha registrato un calo. Solo una minoranza, troppo esigua, dichiara un miglioramento. Ma più che regredire, il ceto medio oggi galleggia: resta a galla, ma senza margine, senza respiro, senza reale prospettiva. Anche i consumi raccontano questo stato: il 45% ha già dovuto ridurli, e la maggioranza teme ulteriori rinunce nei prossimi mesi. Eppure il ceto medio non si arrende. Continua a investire. Continua a sperare. La metà di queste famiglie è pronta a sacrificarsi per garantire ai figli una casa, un'istruzione. È una generosità silenziosa, un'energia civile che tiene insieme le famiglie e la società. Ma non può continuare a reggere da sola. Perché se da un lato le famiglie continuano a investire nelle nuove generazioni, dall'altro immaginano per loro un futuro altrove. Fuori dal Bel Paese. È questo il segnale più grave: formiamo capitale umano, ma non siamo in grado di trattenerlo. Investiamo nel futuro, ma si raccoglie altrove.

È una perdita doppia: economica e simbolica. Perché quando i giovani vanno via, non portano con loro solo competenze. Portano via anche speranza. A questa condizione si somma una percezione sempre più diffusa: che le grandi decisioni - economiche, fiscali, geopolitiche - vengano prese altrove, spesso fuori dal controllo del singolo e perfino oltre i confini nazionali. Questo alimenta un senso di smarrimento, che cresce di fronte a trasformazioni profonde come la transizione digitale, la sfida ambientale e l'impatto dell'intelligenza artificiale, che rimettono in discussione i paradigmi stessi del lavoro, dell'impresa e della leadership. E allora parliamoci chiaro. Se il reddito da lavoro non basta più a garantire sicurezza, se i salari italiani sono fermi da trent'anni e la capacità di spesa continua a essere erosa da inflazione e rincari, allora è tempo di parlare di fisco, di costo del lavoro, di investimenti, senza ipocrisie.

È il 70% della classe media a chiedere una riduzione delle tasse sui redditi lordi. Non è una rivendicazione di parte: è una domanda collettiva di equità, fiducia, futuro.

Stefano Cuzzilla, presidente Cida e Trenitalia

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