Non è l'eccezione ma la regola

un quadro di inaudita gravità quello che emerge dalle intercettazioni riguardanti alcuni magistrati nell'ambito dell'inchiesta su Luca Palamara

Non è l'eccezione ma la regola

È un quadro di inaudita gravità quello che emerge dalle intercettazioni riguardanti alcuni magistrati nell'ambito dell'inchiesta su Luca Palamara, ex presidente dell'Anm (Associazione nazionale magistrati), pubblicate il 20 maggio sul quotidiano La Verità. Questi i fatti. Siamo nell'agosto 2018, caso Nave Diciotti, con Salvini allora ministro dell'Interno. La politica dei porti chiusi e della lotta alla immigrazione clandestina scatena una campagna di odio senza precedenti orchestrata dalla sinistra nei suoi confronti, addirittura paragonato ai più biechi dei nazisti. Oggi si legge che il capo della Procura di Viterbo, Paolo Auriemma (non sotto indagine) dice a Palamara: «Salvini indagato per i migranti? Siamo indifendibili». Palamara replica: «Hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo».

Proprio sulle colonne di questo giornale (22 gennaio 2020) avevamo messo in guardia, a proposito del successivo e analogo caso della Gregoretti, sulle incongruenze dell'ipotesi accusatoria del reato di sequestro di persona aggravato (dai 3 ai 15 anni di reclusione) a lui contestato. Ma soprattutto sulle implicazioni aberranti, sotto il profilo della separazione dei poteri, di un'autorizzazione a procedere da parte del Senato nei suoi confronti per una fattispecie di questo tipo. E ricordavamo che l'insindacabilità da parte dei giudici dell'atto politico - a meno che ovviamente non si trattasse di atti eversivi dell'ordine costituzionale - non è un privilegio di casta, ma esattamente uno dei pilastri della separazione dei poteri su cui si è fondato tutto il moderno costituzionalismo. Oltre al fatto che aprire ad una «prima» del genere sarebbe stato molto pericoloso per eventuali derive illiberali che ne sarebbero potute scaturire.

Sappiamo come è andata a finire la vicenda della nave Gregoretti con il governo Conte bis, tanto che a luglio si aprirà un processo, surreale, nei suoi confronti. Lo scambio di opinioni tra i due magistrati - e, a quanto pare, ci sono in giro anche altre intercettazioni al riguardo - getta una nefasta ombra, seppur ancora ce ne fosse bisogno, sulla fisionomia complessiva della magistratura quale ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (articolo 104, comma 1 della Costituzione). Vacillano principi costituzionali fondanti un ordinamento democratico, come la soggezione (...)

(...) dei giudici esclusivamente alla legge (articolo 101, comma 2), il giusto processo, sotto il profilo della terzietà e imparzialità del giudice (articolo 111, comma 2), la disciplina e l'onore nell'adempimento di funzioni pubbliche (articolo 54, comma 2). Si mina alle fondamenta quel patto di fiducia tra cittadini e istituzioni che è alla base dell'architettura costituzionale dell'amministrazione della giustizia.

Viene anche da supporre, con sgomento, che ciò che emerge oggi non sia un episodio isolato, ma solo un frammento di una realtà ben più estesa e radicata. Una giustizia politicizzata è, senza giri di parole, uno «scandalo» intollerabile che va sanato, e al più presto. Se settori della magistratura e singoli magistrati non agiscono per la difesa di quella legalità di cui dovrebbero essere gli integerrimi custodi, ma per fini propri politici o, comunque, diversi da quelli della giustizia, allora è proprio finita, perché collassa tutto il sistema democratico.

Ci domandiamo se non sia il disegno costituzionale della struttura del Csm a generare queste distorsioni. Le celebrate «correnti», in cui sono ripartiti gli eletti «togati», nascono da una diversa ideologia sui poteri del giudice rispetto alla legge, cui pure per Costituzione sarebbe soggetto. E nel Csm tali correnti vanno fatalmente a interagire con il mondo dei partiti politici, in un intreccio patologico e patogenetico che diventa quasi un naturale «metodo» di lavoro.

I nostri padri costituenti non avrebbero davvero potuto neppure immaginare che quello che era stato concepito come un organo di governo autonomo, necessario per assicurare la separazione dei poteri e l'indipendenza dei magistrati dalla politica, si sarebbe trasformato proprio nel suo opposto.

A fronte di tale evidente deriva, si imporrebbe adesso un intervento forte del presidente della Repubblica, supremo custode della Costituzione, e non a caso posto da quest'ultima a presiedere il Csm.

È solo il capo dello Stato, col suo alto magistero di influenza, a poter dare avvio non solo ad una riforma complessiva della magistratura, che da troppi anni attendiamo, ma soprattutto ad un suo risorgimento morale e etico, non più procrastinabile.

Ginevra Cerrini Ferroni

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