Coronavirus

Ogni weekend l'Italia appesa al nuovo dpcm

Un Paese che da un mese trascorre ogni singolo weekend in ansia, non sapendo cosa sarà libero di fare il lunedì, incerto se potrà spostarsi, andare a scuola, lavorare o provare a divertirsi, non può essere un Paese sereno.

Ogni weekend l'Italia appesa al nuovo dpcm

Un Paese che da un mese trascorre ogni singolo weekend in ansia, non sapendo cosa sarà libero di fare il lunedì, incerto se potrà spostarsi, andare a scuola, lavorare o provare a divertirsi, non può essere un Paese sereno. Perché se c'è una cosa che genera più insicurezza del virus, è rendersi conto che chi amministra non ha la minima idea di cosa stia succedendo e navighi a vista.

I dpcm del governo Conte sono ormai pubblicazioni a cadenza settimanale, come Topolino. La sera del 18 ottobre - dopo tre giorni di rinvii e tentennamenti - c'erano state le comunicazioni del premier sulla chiusura dei ristoranti a mezzanotte, con le palestre e le piscine che rimanevano aperte. Il 25 ottobre, invece, è arrivato il giro di vite: locali chiusi alle 18, serrata di centri sportivi, cinema e teatri. In una settimana si era passati dal tono rassicurante alla «situazione seria». Non esattamente la prova che il governo avesse tutto sotto controllo, ma si sperava che avesse recuperato un minimo di polso. Invece siamo di nuovo daccapo. E per il terzo weekend di fila si sente nell'aria la tensione del lockdown, si attendono nuove restrizioni, nuove linee guida che nascono con la data di scadenza ravvicinata: l'epoca della politica-yogurt.

Il fatto che Conte abbia perso 7 punti di fiducia in una decina di giorni è la logica conseguenza di questa ambiguità, perché nulla è più disarmante della continua esibizione di impreparazione. Chi per sapere quando fermarsi deve picchiare contro la macchina davanti e contro quella dietro, banalmente non sa parcheggiare. Altrettanto, non è accettabile vedere un governo varare ondate di misure di sicurezza pubblica alla cieca, come i concorrenti bendati che giocano alla pentolaccia.

La formuletta magica «se i contagi non caleranno» non è una scusante, ma un alibi che non regge. Centinaia di epidemiologi, virologi, matematici e tecnici da marzo vanno spiegando fino alla nausea la crescita esponenziale del contagio e il fatto che le misure hanno bisogno di almeno due settimane per influire sulla curva. Quindi, che i contagi in questo periodo sarebbero saliti era scientifico, pacifico e ben noto a tutti, governo compreso. Rassicurare che «con 11mila nuovi casi al giorno non c'è esigenza di lockdown» e poi sei giorni dopo annunciare con faccia contrita che «con 21mila contagi occorre chiudere» ha un effetto devastante: viene da pensare che o siamo governati da miopi gravi incapaci di prevedere oltre le 48 ore, o siamo governati da professionisti dello scaricabarile incapaci di prendere decisioni impopolari. Con il risultato geniale che ora saranno costretti a misure draconiane, in ritardo e a ridosso del Natale.

La realtà è che in questo frangente Conte è in una via senza uscita, in cui si ritrova a causa dell'immobilismo di quei mesi in cui la prospettiva della seconda ondata non è stata affrontata (surreali i pasticci sulla riapertura delle scuole, scandalosa l'assenza di un piano di incremento dei trasporti pubblici, insufficienti le misure di tracciamento e tamponi). Consapevole delle mancanze del proprio governo, ha cercato in ogni modo di procrastinare le inevitabili chiusure, che sono la certificazione del suo fallimento, a costo di risultare ridicolo nella sua comunicazione schizofrenica. Oggi o domani, l'Italia si ritroverà per l'ennesima volta davanti alla televisione, costretta a pendere dalle sue labbra indecise di sacerdote in pochette per sapere finalmente che destino la attende.

Ascolterà l'omelia, riceverà la penitenza e imparerà i nuovi comandamenti settimanali: anche stavolta il dpcm è finito, restate a casa in pace.

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