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Il pallone di Calenda

Nel divorzio tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, ricco di colpi di scena come una serie tv, la grande assente è la politica.

Il pallone di Calenda

Nel divorzio tra Carlo Calenda e Matteo Renzi, ricco di colpi di scena come una serie tv, la grande assente è la politica. Ad analizzare i motivi della rottura, infatti, si trova di tutto: regole congressuali, finanziamenti, ragioni editoriali, profili caratteriali, addirittura ossessioni psichiatriche. Tutti argomenti che farebbero felice qualsiasi sceneggiatore, ma latita in maniera desolante la politica. A sei mesi dalle elezioni non si capisce ancora perché Azione e Italia Viva si siano presentate insieme, quale sia la loro linea politica per l'oggi e per il futuro, il profilo programmatico del partito unico che era nei loro progetti e le possibili alleanze. Nulla di tutto ciò ha caratterizzato il dibattito di questi mesi, al punto che la rottura è avvenuta su altro.

Ora, un partito, o meglio due, può anche avere un'anima dadaista, ma la sua ragion d'essere non può che essere politica. Che, invece, è difficile da ritrovare in quella fiera dell'ego, in quella tensione narcisista che ha accompagnato il tragitto verso il matrimonio di Azione e Italia Viva. Specie l'atteggiamento di Calenda risponde più a categorie psicologiche che non politiche. Il leader di Azione si è sempre presentato come l'uomo del destino, al punto che ha subordinato la nascita della formazione centrista alla sua leadership: o era lui il capo, o non se ne faceva niente. Non per nulla ha preteso che il suo nome fosse scritto nel simbolo del partito. Lo stesso spirito di chi gioca una partita in parrocchia e se non vince si porta via il pallone.

In fondo è quello che ha fatto. Appena è stata ventilata l'ipotesi di una candidatura alternativa, magari al femminile, si è adombrato fino a mandare tutto all'aria. Insomma, più che un congresso vero, sognava un congresso truccato. Il motivo è semplice: una leadership nasce su una politica, giusta o sbagliata che sia. Quella di Calenda è rimasta un rebus. Almeno Renzi, con il suo stile manovriero, qualche segnale sul versante del centrodestra lo ha inviato. Calenda, invece, a sinistra è rimasto del tutto spiazzato dall'avvento della Schlein. Non ha approfittato della svolta radicale del Pd, magari per trasformare il suo porto in un possibile approdo per gli esuli riformisti di quel partito in cerca di una nuova patria. È rimasto afono.

Per cui l'occasione si è trasformata in handicap: il nuovo soggetto stenta ad essere una possibile opzione per gli scontenti del Pd, ma nel contempo verifica giorno dopo giorno come un'alleanza con il partito della Schlein, che compete con il grillismo sul terreno del populismo di sinistra, rischia di essere contro-natura per chi coltiva un'anima riformista o liberaldemocratica. Non avendo una ricetta politica convincente, ha tentato di darsi un'identità nello scontro con Renzi. Un meccanismo perverso in cui la politica, appunto, lascia il campo alla psicologia. Così la kermesse della Leopolda è diventata un problema, la direzione del Riformista di Renzi pure, come se di politici direttori di giornali non fosse piena la storia. Fino al divorzio di ieri e magari alla rappacificazione di dopodomani: in politica contano i numeri e da soli i due duellanti non contano un tubo entrambi.

A meno che tutti e due non diventino a loro volta degli esuli alla ricerca di un porto sicuro.

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