Il paradosso dello Zar

Non è detto che i tornanti di una guerra imprevedibile non trasformino oggi Kiev in una nuova Stalingrado

Il paradosso dello Zar

L'epica sovietica aveva un'icona: la battaglia di Stalingrado. Quell'episodio è il paradigma dell'eroismo riconosciuto sia dalla Russia comunista, sia da quella nazionalista, che ha rispolverato la bandiera con l'aquila bicipite nera dei Romanov. Ebbene, non è detto che i tornanti di una guerra imprevedibile non trasformino oggi Kiev in una nuova Stalingrado. Con gli ucraini nei panni dei russi di ieri e i russi di oggi nel ruolo dei nazisti. Gli ingredienti ci sono tutti: c'è la guerra patriottica di popolo invocata dal presidente Zelens'kyj; c'è la battaglia cruenta che potrebbe trasformarsi in uno scontro casa per casa; ci sono gli eroismi solitari, a cominciare dall'episodio del soldato che si fa saltare in aria per bloccare i carri armati; c'è la presunzione dei generali russi di stravincere in un giorno che ricorda quella dello stesso segno dei generali tedeschi; e c'è la disperazione degli ucraini che è stretta parente di quella dei soldati dell'armata rossa di allora. Le due città si trovano sullo stesso parallelo, Stalingrado, cioè Volgograd, a 1300 km ad est di Kiev e, per uno scherzo della Storia, coincidono pure le date: l'assedio cominciò nel 1942 e terminò nel febbraio del 1943. Esattamente 80 anni fa.

Il paragone aleggia in queste ore. Vladimir Putin che è l'anello di congiunzione tra le due Russie - l'uomo che con un piede in quella comunista di un tempo si è inventato quella nazionalista di oggi - ne è quantomai consapevole. Anche lui si è cibato di quell'epica, di quella retorica. E in una guerra tutta mediatica come quella a cui stiamo assistendo, il paragone potrebbe rivelarsi esiziale per far pendere la narrazione dalla parte di Zelens'kyj.

Kiev-Stalingrado rappresenta, infatti, il paradosso di Putin: lo Zar al Cremlino celebra l'eroismo degli assediati di Stalingrado, mentre a Kiev si ritrova appiccicata addosso l'immagine odiosa degli assedianti. È l'immagine che più teme. Quella che ha dato spunto ai ritratti irriverenti che lo raffigurano con i baffetti e il ciuffetto del fuhrer. Ed è il racconto a cui tenta di reagire e di sfuggire, mettendo al centro degli obiettivi dell'invasione dell'Ucraina, non per nulla, la «denazificazione» del Paese. Dimenticando, però, che l'uomo simbolo della resistenza di Kiev, Volodymyr Zelens'kyj, è ebreo.

Ma, soprattutto, è la contraddizione di una guerra, che come la rigiri appare sempre sbagliata. Figlia dell'arroganza e della presunzione di un uomo, o meglio di un regime, che non vuol guardare avanti ma per sopravvivere, per avere un futuro, si affida solo alla nostalgia dei sogni di potenza delle due Russie che incarna. Una guerra che riflette nello specchio della Storia le sue contraddizioni con i russi che assalgono la città che addirittura gli ha dato il nome, la Kiev dei «rus». Un assurdo per un nazionalista.

E più il dramma ucraino andrà avanti, più ci saranno vittime, più si moltiplicheranno le immagini di guerra eroiche e strazianti di un popolo che si sente abbandonato e più le contraddizioni diventeranno evidenti, inconciliabili, stringenti.

Alla fine Putin si ritroverà in un pantano militare, mediatico, economico, diplomatico, addirittura, sportivo visto che nessuno vuole più gareggiare con i russi. Per cinismo lo Zar magari farà spallucce, ma rischia di essere ingoiato dalle sue contraddizioni. Fuori e dentro la Russia.

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