Non sono molti i referendum che possono cambiare la storia di un Paese. Due, sopra agli altri, lo hanno fatto in Italia: il voto del 2 giugno 1946 che scelse la Repubblica e il pronunciamento del 12 maggio 1974 in favore del divorzio. Ebbene, il referendum sulla riforma della giustizia potrebbe ora entrare in classifica. Un'eventuale vittoria dei sì, infatti, avrebbe il rilevante effetto di porre fine alla tormentata "guerra dei trent'anni" tra il potere legislativo e quello giudiziario. Certificando, nello stesso tempo, il tramonto dell'antipolitica. Per la prima volta dopo decenni, infatti, il cittadino comune e la classe politica si trovano dalla stessa parte della barricata: quella che pretende il "giusto processo". Con un nuovo equilibrio tra accusa e difesa e il ripristino di un'autentica terzietà del giudizio. Non si tratta dunque, come si vorrebbe far credere, di uno scontro tra destra e sinistra. Ma di una battaglia "trasversale" (caratteristica propria di ogni referendum) sul senso della democrazia.
Tutto cominciò trent'anni fa. All'inizio degli anni Novanta, si posero le basi di un cruento scontro tra poteri dello Stato. Prevalse, com'è noto, la magistratura, determinando la scomparsa, per via giudiziaria, di quasi tutti i partiti. Una cosa mai avvenuta in alcun Paese occidentale. Protagonisti della guerra contro la cosiddetta "casta" i magistrati, approfittando dell'incapacità della politica di venir fuori da una drammatica crisi della rappresentanza, diventarono allora gli "eroi" di una sorta di "nuova resistenza" (chi non ricorda il "resistere, resistere, resistere" del procuratore capo Borrelli?). Nacque perciò il mito di quella che, con infelice ossimoro, fu chiamata "rivoluzione giudiziaria" e che, sull'onda del consenso popolare, restò in servizio permanente effettivo anche dopo la fine della Prima Repubblica, diventando così un fenomeno cronico della nostra vita pubblica. E decretando, come osservato da Giovanni Orsina su queste colonne, una distorsione del normale equilibrio dei poteri. Il giudiziario assunse un'acclarata supremazia sull'esecutivo e sul legislativo.
Ma cosa era accaduto davvero? All'inizio degli anni Novanta i magistrati, al pari di tutti i cittadini italiani, avevano sentito soffiare l'alito di un nuovo vento storico, "antipolitico", ed erano finalmente riusciti a intervenire sul potere, sconfiggendo insabbiamenti e omertà. Era perciò inevitabile che, sulle prime, intorno a loro si creasse un grande consenso. Il quale, però, si rivelò un'arma a doppio taglio. Perché, da quel momento, essi divennero prigionieri di un mito: quello che l'intervento giudiziario potesse davvero sostituire l'azione della politica. Un grave equivoco: quegli "eroi" infatti avrebbero dovuto sapere, essi per primi, che la magistratura non è un "contropotere", ma un ordine dello Stato. E che dunque le loro "incursioni politiche" (si badi anche laddove alieno da forzature, e raramente fu così) sono sempre materia assai delicata per le sorti di una democrazia. Alcuni di loro, viceversa, hanno finito per considerarsi agenti di una missione purificatrice, ai confini dello "Stato Etico" ed esibendo, per di più, una qual certa vanità mediatica, assai poco consona a servitori dello Stato. E certamente assai distante dalla solitudine (questa sì davvero eroica) di Falcone e Borsellino.
Tutto ciò, gradualmente, ha finito per togliere loro la fiducia degli italiani e farli apparire, per contrappasso, la "nuova casta". Ed è questo il motivo per cui oggi cittadini comuni e classe politica coltivano lo stesso sentimento: l'urgenza di nuove regole che rendano davvero "giusti" i processi. Altro che attacco alla Costituzione! È vero il contrario: la riforma ripristina il costituzionale equilibrio tra i poteri dello Stato che la "guerra dei trent'anni" ha alterato. Controprova: se in una democrazia si arriva al punto di doversi schierare "pro o contro" un'inchiesta giudiziaria, come accade ormai di continuo (e non solo nelle vicende politiche, Garlasco docet) vuol dire che il sistema è malato. Perciò il referendum è l'occasione per cambiare la storia "sbagliata" degli ultimi decenni.
Dispiace che il Pd, all'interno del quale molti condividono la riforma, non abbia voluto coglierla per liberarsi finalmente dal mito della "rivoluzione giudiziaria". Superare la stagione dell'antipolitica, infatti, converrebbe anche all'opposizione. Perché conviene all'Italia.