Cronache

Perché il referendum sull'eutanasia andava oltre

Il referendum andava oltre: obbligava il medico a uccidere il malato, somministrandogli un veleno attraverso un consenso manifestato più o meno esplicitamente

Perché il referendum sull'eutanasia andava oltre

L'uomo deve sentirsi come chiamato in prima persona a testimoniare l'amore nella sofferenza. Le istituzioni sono molto importanti ed indispensabili; tuttavia, nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, l'amore umano, l'iniziativa umana, quando si tratti di farsi incontro alla sofferenza dell'altro. Questo si riferisce alle sofferenze fisiche, ma vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali, e quando, prima di tutto, a soffrire è l'anima.

San Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 29

Una necessaria premessa: la vita è apertura all’altro, attenzione ai suoi bisogni, sguardo sollecito alle sue fragilità. Da questa prospettiva guardiamo al tema tanto discusso in questi giorni: l’eutanasia. Sappiamo che la Corte Costituzionale ha bocciato il referendum proposto su tale tema. Il Parlamento Italiano è, quindi, impegnato a discutere il ddl sul suicidio assistito, in tempi ragionevoli e coerenti con l’importanza della questione che coinvolge il malato, i familiari nella loro estrema sofferenza e il medico che – in quanto tale – se non sempre può guarire, non è chiamato a uccidere. Il malato può chiederglielo, si presuppone in modo consapevole. Il diritto a scegliere se continuare a vivere o morire era già garantito attraverso il testamento biologico, con la possibilità di scegliere di sospendere le cure e lasciarsi morire (Legge 219/2017).

Da parte sua, la scienza medica ha proseguito i suoi passi da gigante e l’aspettativa di vita (solo nei Paesi economicamente più ricchi...) si è allungata di molto. Il referendum andava oltre: obbligava il medico a uccidere il malato, somministrandogli un veleno attraverso un consenso manifestato più o meno esplicitamente. Tutto ciò senza depenalizzare l’omicidio, con un equivoco di fondo presentato pubblicamente da chi scrive allo stesso dott. Cappato. Da un lato c’è il malato (non lo si chiama neanche più persona: diventa una categoria, il “malato”) che afferma di voler morire: per lui vale la presunzione che sia perfettamente libero, senza condizionamenti di sorta. Sul fronte opposto, però, c’è chi è chiamato a commettere l’omicidio, ossia il medico che cessa, così, di essere libero e subisce invece un evidente condizionamento, essendo chiamato a somministrare un farmaco letale. Un limite che è una logica conseguenza di quando si mettono i diritti allo scontro. Non è possibile, a tal proposito, non ricordare il DDL Zan che si prefiggeva di contrastare la discriminazione: in realtà, agli articoli 1, 4 e 7, esso andava verso l’esatto contrario e, minando tre importanti diritti costituzionali quali la libertà di espressione (art. 21 Cost), la libertà di scelta educativa (Art. 30 cost.) e la libertà di insegnamento (Art. 33 Cost), non solo alimentava la discriminazione ma, peggio, mascherava un pensiero unico dilagante, del tutto incostituzionale.

Dopo la bocciatura in Senato, il sen. Zan affermò che, in realtà, quei tre articoli non erano essenziali ad una legge contro la discriminazione. Il buon senso – inascoltato – prevalse dopo ore e ore di audizioni in commissione (tempo, studio non retribuito anzi beffeggiato). Bastava un unico articolo che stigmatizzasse ogni tipo di discriminazione, ribadendo la normativa pregressa. Costituzione primis. Le cose più semplici sono spesso quelle più difficili da realizzare perché sono prive di interessi terzi che le strumentalizzino. Anche riguardo al pronunciamento della Corte sul referendum in questione, si evidenziano due libertà allo scontro: il diritto di chi chiedeva di morire e di chi avrebbe dovuto farlo morire. Il diritto di morire non presuppone che qualcuno abbia il dovere di far morire. Non è più una relazione di libertà inscritta nei diritti e doveri costituzionali. La libertà si nutre sempre e solo di responsabilità che, in quanto riferita a soggetti in relazione, necessariamente apre alla corresponsabilità, alla presa in carico dell’altro. Insomma non c’è libertà senza solidarietà. La depenalizzazione dell’omicida non è coerente con i diritti e i doveri costituzionali. In aggiunta, la sentenza 242/2019 della Consulta sul Caso Cappato/Dj Fabo, pur aprendo, a determinate condizioni, a una procedura lecita nell’ambito del suicidio assistito, consente alla persona di procurarsi la morte assistita solo in modo autonomo, ma se questa non vuole procedere da sola o non può – a causa di malattia totalmente inabilitante – rimane esclusa da questo diritto. Il referendum propone l’eutanasia attiva e cioè la parziale abrogazione dell’articolo 579 del Codice penale, relativo all’ “omicidio del consenziente”. In realtà il diritto ad una morte dignitosa non ha nulla a che fare con la depenalizzazione dell’omicida perché deve avvenire con il consenso. Nessuno può dire “tagliami un arto, fammi del male perché sei impunito”. E chi può dire che il consenso sia libero e non condizionato anche solo da uno spirito sadomaso o peggio dalla sudditanza? Troppo banale pensare che ci sono situazioni nelle quali siamo ben lontani dal consenso. Esco di casa la sera, vado in discoteca, bevo, accetto un passaggio in auto: questo non solo non legittima la violenza ma, peggio, non c’è il consenso. Il confronto è brutale, ma è bene intendersi su che cosa stiamo chiedendo con l’abrogazione parziale dell’art. 579. Apriremmo una falla enorme in cui l’omicida è stato autorizzato ad uccidere.

Non possiamo pensarci come cittadini responsabili portando a sistema i casi limite. C’è il caso limite del sofferente estremo che potrebbe lasciarsi morire ai sensi della L. 219/17 o della sentenza Cappato, ma non può farlo e, quindi, ha bisogno che il medico gli somministri un veleno per morire. Allora si entra in un campo minato, in cui l’omicidio sarà sempre consentito. Impossibile dimostrare dove il consenso non era estorto o viziato. Chi decide chi deve vivere o morire e, soprattutto, cosa è dignitoso? In una logica economica, un malato oncologico costa e, se la prospettiva sono 4 mesi, che senso ha curarlo, con giorni di ricovero, interventi forse, chemio…? Tutto sprecato, morirà. Sarebbe sufficiente una terapia del dolore o un farmaco letale, magari per i parenti, ma anche per l’economia. Con tutta la gente che muore di fame, ha senso sciupare macchinari, risorse, chemio per un malato oncologico che ha solo 4 mesi? In una logica economica non è dignitoso. Ma noi sappiamo che dietro l’economia c’è l’uomo in quanto uomo. Il covid ci ha insegnato a misurarci con i nostri limiti e a ritrovarci soggetti liberi e, quindi, solidali: fuori da questa logica di libertà e solidarietà non c’è vita. E’ semplice depenalizzare l’omicidio del consenziente: poi poco importa se al malato somministrano un veleno perché il malato è un costo, peggio non è perfetto… Nell’anarchia diventa difficile tutelare i propri diritti. Un’amica mi ha detto giorni fa: “Suor Anna Monia, lei deve pensare a chi vorrebbe morire e non sa che si può fare il testamento biologico, quindi meglio l’eutanasia attiva. Il testamento biologico è roba da ricchi”. Io aggiungo: l’articolo 579 è per i poveri e i deboli. Perché i poveri non hanno voce ed una legge che lascia indietro i poveri, gli emarginati, quelli che già sono un peso ci rende sicuramente tutti più poveri. Il povero non può permettersi le prime pagine di Dj Fabo o di Eluana Englaro. Resta nell’anonimato di una stanza ove si è deciso che lui è un peso, quindi meglio un veleno e avanti il prossimo. Terribile! La legge sulla eutanasia mina le fondamenta della convivenza civile. Certamente il diritto ad una vita dignitosa è un tema aperto ma è chiaro che questa legge che si prefigge lo scopo di aiutare i più fragili, in realtà, è indirizzata proprio a toglierli di mezzo. Mi auguro che il Parlamento Italiano che ha dimostrato, bocciando il ddl Zan, una reale sensibilità, perchè i diritti non vengano mai messi allo scontro, sappia fare altrettanto con la legge sul fine vita.

Si ritorni a guardare alla persona in quanto tale e non come un numero.

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