Scena del crimine

Il Valium, l'asfissia e i colpi: gli "amanti diabolici" dietro all'omicidio

Giuseppe Lo Cicero venne ucciso nel 2004. Per la sua morte vennero condannati la moglie Elena e Gianfilippo Marotta

Il Valium, l'asfissia e i colpi: gli "amanti diabolici" dietro all'omicidio

Prima il Valium, poi il pesticida e il sacchetto di plastica attorno al volto. Infine la cintura dell'accappatoio stretta al collo e i colpi alla testa con una statuetta, usata come un martello. Venne ucciso così Giuseppe Lo Cicero, imprenditore palermitano, ritrovato senza vita nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2004. Condannati per omicidio la moglie Elena Smeraldi e Gianfilippo Marotta, tuttofare nella cooperativa gestita dai coniugi: gli "amanti diabolici", come li ribattezzò la stampa del tempo, anche se la presunta relazione tra i due venne smentita successivamente.

Elena, Giuseppe e Gianfilippo

Era il 1980 quando Elena Smeraldi, di origini siciliane ma trasferitasi a Roma, conobbe Giuseppe Lo Cicero, un imprenditore di edilizia cimiteriale, e se ne innamorò. "Un amore con la A maiuscola - dichiarò anni dopo a Franca Leosini, che la intervistò per il programma Storie Maledette - l'amore della vita, quello che trovi una volta sola". Elena, che aveva alle spalle un precedente matrimonio ormai finito, decise di andare a vivere insieme all'uomo di cui si era innamorata. Tempo dopo ebbero un bambino e, successivamente, decisero di sposarsi. Solo in seguito, per motivi personali e lavorativi, Elena e Giuseppe tornarono in Sicilia con il figlio e si stabilirono a Palermo, dove la donna assunse l'amministrazione della cooperativa Sicilia, che si occupava di servizi di pulizia per enti pubblici.

Fu proprio la cooperativa il luogo in cui Elena Smeraldi incontrò, nel 2001, Gianfilippo Marotta, quando l'uomo divenne dipendente della cooperativa con le mansioni di tuttofare. Marotta, raccontò la donna a Storie Maledette, faceva da autista, faceva la spesa e andava anche a prendere il figlio della coppia a scuola. Frequentava spesso la casa dei coniugi Lo Cicero e aveva iniziato ad accompagnare Giuseppe in ospedale, dove doveva effettuare gli esami e le visite necessarie per tenere sotto controllo la cirrosi epatica, che affliggeva l'uomo da qualche tempo.

Le attenzioni di Marotta non erano rivolte solamente alla famiglia Lo Cicero ma, secondo quanto rivelò lui stesso, erano indirizzate soprattutto a Elena Smeraldi, per la quale l'uomo aveva perso la testa. Quando venne arrestato, Gianfilippo dichiarò ai carabinieri di essere l'amante di Elena da 16 mesi. Per questo la stampa ribattezzò i due "gli amanti diabolici", intendendo la possibilità che Lo Cicero fosse stato ucciso da Elena e Gianfilippo, che avrebbero così potuto vivere la loro relazione senza impedimenti. In realtà l'esistenza di un legame amoroso, sempre negato dalla Smeraldi, venne smentito in sede processuale: "Non poteva ritenersi provata la sussistenza di una relazione sentimentale con la Smeraldi". L'uomo però, come confermato anche dalla Corte di Cassazione, "era perdutamente innamorato anzi 'infatuato' perché non corrisposto".

L'omicidio

Il 15 aprile 2004 alle 3.50 del mattino i carabinieri vennero chiamati dal personale del 118, che era intervenuto in una villetta a Palermo. Quando entrarono in casa, videro Giuseppe Lo Cicero "supino sul pavimento della camera da letto in una pozza di sangue". Sul volto e sulla testa vennero individuate numerose lesioni, mentre vicino al corpo giacevano una statuetta di ceramica, ormai rotta, e "a 28 centimetri un grosso coltello da cucina".

L'autopsia rivelò "lesioni da corpo contundente e di tipo asfittico", le prime causate da un oggetto esterno, le seconde riconducibili a soffocamento o strangolamento. Sul collo inoltre era presente "una ecchimosi nastriforme", verosimilmente provocata da una cintura di accappatoio, mentre sul gluteo sinistro c'erano segni di agopuntura.

Successivamente vennero effettuate le analisi delle urine, in base alle quali vennero rilevati "principi di benzodiazepine e pesticida". Si concluse quindi che la morte di Giuseppe Lo Cicero era avvenuta tra la mezzanotte e le 2 della notte tra il 14 e il 15 aprile 2004, a causa di un "arresto cardio-circolatorio seguente alle lesioni da corpo contundente". I colpi al capo erano stati quelli decisivi, che avevano portato alla morte del Lo Cicero, dopo che l'assassino aveva cercato di strangolarlo e di ucciderlo con i pesticidi, forse per farla sembrare una morte naturale.

Prima l'omicida aveva iniettato alla vittima una dose massiccia di Valium, somministrato in tre soluzioni, poi gli aveva praticato un'iniezione di una miscela di pesticida e acqua. Successivamente il killer aveva stretto un sacchetto di plastica attorno alla testa della vittima e aveva preso dei cuscini, con i quali aveva fatto pressione sul volto di Lo Cicero, "il tutto al fine di soffocarlo", secondo quanto si legge nella sentenza di Cassazione. Ma l'uomo era ancora vivo.

Per questo, l'assassino aveva stretto una cintura di accappatoio attorno al collo della vittima e gli aveva ripetutamente colpito la testa con la statuetta di legno e ceramica ritrovata vicino al corpo, fino al punto di "fracassargli la scatola cranica e cagionando perciò le lesioni mortali".

Gli inquirenti ricostruirono i fatti della sera precedente l'omicidio. Il 14 aprile 2004, a casa dei Lo Cicero si era tenuta una cena, alla quale avevano partecipato anche i coniugi Vaccaro, amici di famiglia. Quella sera però la vittima non aveva cenato insieme agli ospiti, per un malessere causato dalla cirrosi epatica. Da due anni Giuseppe soffriva di questa patologia, che comportava diverse visite in ospedale e continue cure. "Nel corso della serata - si legge nella sentenza di Cassazione - era stato concordato che il figlio dei Lo Cicero, Adriano, sarebbe andato a dormire a casa del Vaccaro, come in altre occasioni era avvenuto, dato che i ragazzi erano amici. Erano tutti andati via intorno alle h.23".

Elena Smeraldi, quella notte, fece diverse telefonate e chiamò il Vaccaro due volte: la prima per chiedergli se aveva già raggiunto la sua abitazione, la seconda per chiedergli aiuto perché il marito stava male. Ma, quando l'uomo era tornato alla villetta dei Lo Cicero alle 2.45, la donna "aveva subito detto di avere ucciso il marito per difendersi dalla minaccia, da quello portata con un coltello mentre erano a letto". Con la Smeraldi c'era anche Gianfilippo Marotta, che sostenne subito la tesi della donna, dicendo di essere stato chiamato anche lui a causa di un malessere di Lo Cicero.

Una morte, molte versioni

La tesi riferita immediatamente dopo il delitto però resse per poco tempo. I carabinieri infatti notarono una ferita al dito mignolo della mano di Marotta. Ferita che lui inizialmente attribuì al morso di un cane. Successivamente però Gianfilippo ammise di essere stato chiamato dalla Smeraldi alle 23.30 della sera del 14 aprile 2004, perché la donna voleva parlargli, dato che il giorno stesso l'uomo era stato allontanato dalla cooperativa, perché "teneva un atteggiamento lavorativo invadente".

A quella decisione il Marotta aveva risposto con la frase "non uno, ma due funerali ci saranno". Quella sera Gianfilippo arrivò alla villetta alle 23.45 e disse di "essere stato minacciato con un coltello dal Lo Cicero, che l'aveva sorpreso mentre in cucina dava un bacio 'sulla fronte' della donna, con la quale aveva una relazione da sedici mesi". A quel punto, la Smeraldi "aveva colpito il marito con la statuetta fino ad ucciderlo". Secondo questa prima versione, quindi, l'omicidio sarebbe stato compiuto allo scopo di difendersi.

Il giorno dopo però Marotta modificò il suo racconto, sostenendo di essere stato chiamato da Elena, che gli avrebbe detto di aver litigato con il marito, perché lui continuava a chiederle di avere rapporti sessuali. Allora, per liberare la donna di cui era innamorato dalla situazione, Gianfilippo disse di aver fatto a Lo Cicero tre iniezioni di Valium e una di insetticida diluito in acqua, composto dalla Smeraldi, e di aver poi "tentato di soffocare la vittima con un sacchetto di plastica e con due cuscini sul viso, mentre la donna teneva ferme le gambe del marito".

Non riuscendovi, l'uomo rivelò di aver stretto il collo della vittima prima con le mani, poi con una cintura e, successivamente, di essersi fatto passare da Elena la statuina con cui aveva ucciso Giuseppe, colpendolo alla nuca diverse volte. Solo dopo l'omicidio, i due avevano preso il coltello, deponendolo accanto al corpo, per far pensare a una colluttazione. Infatti la sentenza di Cassazione specificò che "palesemente incongrua appariva la presenza del coltello".

Fu il pm Maurizio Bonaccorso, durante il processo in Corte d'Assise di Palermo, a ricostruire le versioni rese fino a quel momento da Marotta riguardanti i fatti di quella notte. Dopo aver praticato le iniezioni di Valium e il miscuglio di pesticida e acqua, "il Marotta, forse per accelerare quello che è il progetto omicidiario, si reca nella camera da letto e tenta di soffocare Lo Cicero, mettendogli un sacchetto sulla testa e poi aiutandosi con i cuscini. Nel frattempo il Lo Cicero si sveglia e riconosce il Marotta tanto da pronunciare quella famosa frase 'cornuto e sbirro' e inizia una colluttazione nella quale il Marotta ha la peggio".

Per questo l'uomo avrebbe chiesto alla Smeraldi "di passargli qualche cosa e lei gli passa la statuetta di porcellana che viene rinvenuta". È proprio con la statuetta che il Marotta iniziò a colpire la vittima. Stando alle diverse fasi con cui Elena e Gianfilippo si sarebbero accaniti su Lo Cicero, emerse un piano omicidiario che vedeva il tentativo di far passare il delitto come morte naturale, dato che la vittima soffriva già di patologie al fegato. Ma il marito si era improvvisamente svegliato, costringendo gli assassini a usare un'altra modalità.

Successivamente, come riportato dalla sentenza di Cassazione, Marotta cambiò nuovamente versione, svelando la complicità di Elena Smeraldi come sempre più presente nel progetto omicidiario, affermando di essersi preso tutta la responsabilità "per sollevare da ogni conseguenza la donna della quale era perdutamente innamorato".

Dal canto suo, la donna, dopo la prima ammissione, negò la propria responsabilità nell'omicidio del marito. Riferì che il Marotta "con il quale aveva una frequentazione quotidiana per ragioni di lavoro, aveva 'perso la testa' per lei, ma escludeva di avere intrattenuto con lo stesso una relazione sentimentale". Elena riferì che, dopo aver allontanato Gianfilippo dalla cooperativa, aveva avuto un ripensamento, rendendosi conto che l'uomo sarebbe rimasto senza lavoro, e per questo la sera del 14 aprile gli aveva telefonato e lo aveva convocato a casa sua. Poi si era addormentata "per l'effetto di alcool e tranquillanti assunti" ed era stata svegliata dal Marotta che "le aveva detto di avere già ucciso il marito colpendolo con la statuetta".

Al tempo del delitto, sostenne successivamente Elena, aveva rivelato di aver ucciso lei il marito "perché così le aveva imposto il Marotta, sotto minaccia di uccidere il figlio Adriano". E, per lo stesso motivo, aveva aspettato un anno, prima di ritrattare la sua confessione e dare una diversa versione dei fatti, che vedeva Marotta come unico artefice del delitto.

Le condanne

Per l'omicidio di Giuseppe Lo Cicero vennero condannati Elena Smeraldi e Gianfilippo Marotta. L'uomo venne processato con il rito abbreviato e condannato a 15 anni di reclusione nel 2010. Diversa la sorte della donna, che non richiese il rito abbreviato e il 21 luglio 2010 venne giudicata dalla Corte d'Assise di Palermo, che dichiarò la Smeraldi colpevole, condannandola "alla pena dell'ergastolo". L'accusa era quella di aver ucciso il marito in complicità con il Marotta.

Il 4 novembre 2011 la Corte di Assise d'Appello di Palermo riformò la sentenza di primo grado in merito all'entità della pena, riducendola dall'ergastolo a 24 anni di carcere. La Corte escluse l'aggravante della premeditazione e applicò le "attenuanti generiche, ritenute equivalenti a tutte le residue circostanze aggravanti".

Secondo la sentenza di Cassazione, i giudici di merito identificarono il movente nella "crescente insofferenza della ricorrente al vincolo matrimoniale". La Cassazione, con la sentenza dell'aprile del 2013, rigettò il ricorso presentato da Elena Smeraldi, confermando in via definita la sentenza di Appello e condannando la donna "al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese sostenute in questo giudizio dalla parte civile".

I giudici di merito, spiega la Cassazione, "hanno considerato la versione del Marotta attendibile, coerente e provvista di sufficienti riscontri oggettivi. Questi era certo psicologicamente fragile ed affetto da 'disturbo dipendente della personalità' (consulenza dott. Giordano), ma non da 'psicosi cronica delirante' (consulenze difesa), per cui non poteva dubitarsi della piena consapevolezza delle dichiarazioni", per lo meno "in ordine alla dinamica dell'omicidio".

I giudici ammisero che "non poteva ritenersi provata la sussistenza di una relazione sentimentale con la Smeraldi", ma allo stesso tempo"appariva verosimile che come tale egli l'avesse intesa in forza di un amore, divenuto delirante al punto da fargli confondere la realtà con l'oggetto e la intensità dei suoi sentimenti".

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