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"Troppi dipietrini tra i magistrati. Era meglio la Prima Repubblica"

Lo sfogo off the record in treno dell'ex pm di Mani Pulite: "Non so se ne valeva la pena"

"Troppi dipietrini tra i magistrati. Era meglio la Prima Repubblica"

«Ciao, come va?»: l'esordio è quello che contraddistingue gli incontri casuali di persone che si conoscono, ma non si frequentano. Antonio Di Pietro, con indosso la tradizionale giacca color cammello e pantaloni di flanella grigia, armeggia nella carrozza numero 4 del diretto Roma-Milano delle 15 di giovedì scorso, per trasformarla in una postazione di lavoro. Si inginocchia e con un po' di fiatone attacca le spine di telefonino e computer. In fondo non si aspettava quel saluto, visto che il sottoscritto ha passato i suoi guai per un esposto dell'allora politico Di Pietro sulle vicende Rai. Ma visto che il ghiaccio è rotto, risponde con un mezzo sorriso e parole di circostanza: «Come va?... Bene. Vedo che questa (...)(...) settimana vanno tutti a Milano». Poi sfodera la frase di rito con cui si presenta da quando è rientrato nella società civile: «...io ormai faccio parte dell'associazione dei reduci, che debbo dire?».

Già, questa è una conversazione tra reduci di tanti anni di storia italiana. Un colloquio informale all'ombra dei ricordi, dei rimpianti, delle illusioni, delle delusioni in cui a volte si cullano e altre volte si disperano i veterani di tante battaglie quando tornano a casa. Un dialogo che si apre con questo saluto alla stazione Termini e diventa confidenziale in piedi, mentre si attende, insieme ad altri passeggeri, nel corridoio della carrozza, l'arrivo alla stazione Centrale di Milano.

Prima dei saluti di commiato è Di Pietro che si sbilancia con parole da cui trapela una tormentata amarezza. «A volte mi chiedo - osserva - se ne valeva la pena... Se forse non si stava meglio quando si stava peggio nella prima Repubblica. La verità è che oggi tutto è avvolto nell'ipocrisia. Ancor più di ieri.

Restano a galla i più ipocriti. Non le persone che si scontrano a viso aperto, dicendo con lealtà quello che pensano». Il sottoscritto acconsente. Come si può negare che l'insidioso male che avvelena la politica, le istituzioni, l'intera società italiana, sia l'ipocrisia?

Di Pietro è un fiume in piena anche se il tono è quello ironico, distaccato dell'osservatore esterno: «Non si capisce più niente - dice -. Fanno tutti mille parti in commedia. Dentro il Parlamento ci sono personaggi a cui non frega niente di niente. Gli interessa solo arrivare al 2018. Vedo che pure i grillini che sono arrivati in Parlamento quasi senza sapere come, ora si dividono, litigano tra loro». Gli chiedo se ha nostalgia della politica. «Francamente no - risponde -. Non c'è più passione... Eppoi con tutto quello che ho passato... A volte mi dicono di fare questa iniziativa politica, di partecipare ad un'altra, ma io sono diventato allergico. E, comunque, in Parlamento ti senti impotente. Ho la sensazione che stiamo assistendo al declino di questo Paese in tutti i settori...».

Appunto, la politica, ma anche quello che succede nella giustizia italiana, che lui conosce bene. «Io ho fatto quello che ho fatto - racconta - e ora faccio l'avvocato, ma ho capito che il problema sono i tanti dipietrini che ci sono in giro... Ad esempio, questo reato dell'abuso di ufficio che va di moda io non l'ho mai perseguito. Uno può essere accusato di abuso quando ha un tornaconto... ma non così. Basta pensare a com'è finita la vicenda del presidente della Regione campana, De Luca». Non dice di più, ma il tono di voce a volte vale più delle parole: c'è l'enfasi di chi pensa che una volta c'era più attenzione. Detto da lui.

L'altro reduce, il sottoscritto, gli racconta della sua esperienza, dell'essersi trovato di fronte e di essere stato condannato da un giudice tornato in magistratura dopo 20 anni di politica, in cui ha fatto il sindaco, il deputato, il senatore, l'esponente di governo. Una volta - ricordo - queste cose non avvenivano: un magistrato, che era stato senatore democristiano, Lucio Toth, che faceva parte di un collegio che doveva giudicare l'ex segretario Dc Forlani, si astenne da quell'incarico per via dell'amicizia con l'imputato. «Io penso - risponde lui - che un magistrato che è stato in politica non possa tornare a fare il magistrato. Io non ho mai pensato di farlo. Come penso che non abbiano mai pensato di farlo personaggi come Violante. Io che faccio l'avvocato addirittura ho deciso di non esercitare a Milano. Lì conosco un po' tutti, con tutti gli anni che ho lavorato in quel Palazzo. E penso che sia più corretto, per mantenere una correttezza di ruoli, non avere come interlocutori nelle aule giudiziarie persone che si conoscono».

Siamo alle ultime battute. Gli dico che, comunque, l'esperienza in Parlamento, quella che ha avuto lui e quella che sto facendo io, arricchisce. Lui, invece, appare del tutto disincantato. E abbassando un pochino la voce, sibila: «Magari i guai che hai avuto, li hai avuti per quest'esperienza... La politica porta guai. Ne so qualcosa». «Ciao» mi saluta.

«Ciao» rispondo.

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