Di Pietro, i tuoi segreti sono affari di Stato

Di Pietro, i tuoi segreti sono affari di Stato

Voleva farsi prete e questo ci sta. Ma poi la vita ha preso un'altra piega: dalla tonaca alla toga, il destino di Antonio Di Pietro si è compiuto. Ora però l'ex pm di Mani pulite gioca a fare il misterioso nascondendosi negli anfratti oscuri di una biografia mai scandagliata a sufficienza. Dal Molise contadino e democristiano alla procura di Milano e alla Rivoluzione che tagliò le teste dei democristiani, dei socialisti e della Prima Repubblica.

Sono passati ventisette anni da quel 17 febbraio 1992 e dall'arresto di Mario Chiesa. Sospetti e retropensieri non sono mai evaporati. Le braci di quell'inchiesta travolgente ardono ancora nel camino della storia italiana e adesso, sorpresa, è proprio lui a riattizzarle nell'intervista a Diva e Donna. «La mia vera storia me la porterò nella tomba», annuncia sibillino l'ex magistrato, in precedenza contadino, operaio, poliziotto, e in seguito fondatore dell'Italia dei valori, un partito che anticipava alcuni temi della cosmogonia grillina, ministro dei Lavori pubblici e tante altre, troppe cose.

Sì, oggi Di Pietro si coniuga soprattutto al passato ma questo non è un motivo sufficiente per seminare altri dubbi su un capitolo della nostra storia che è ancora divisivo, che non è stato mai risolto - sì, come si risolve un problema - in modo definitivo, che suscita dopo un quarto di secolo grandi interrogativi. Non si tratta di sposare in modo manicheo tesi complottiste o scenari dietrologici, ma certo la genesi di quella vicenda, al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, pur raccontata mille e mille volte solletica domande ulteriori. Come quando si è scoperto che Di Pietro frequentava, quando era un perfetto sconosciuto, il console americano a Milano.

Coincidenze, ma pure legami da spendere nella drammatica stagione che stava per cominciare.

Stupisce dunque che il pm del Pool, dopo aver querelato per anni e anni chi ipotizzava una sua vicinanza o rapporti con gli 007 o con le potenze internazionali o, più banalmente, con la sinistra che si salvò dal naufragio e fu poi sconfitta a sorpresa da Berlusconi, ora si raggomitoli come un ragazzo fra le pieghe di quelle troppe esistenze cucite addosso con il filo e l'ago della sua ruvida impronta meridionale.

Un uomo di Stato, un personaggio che ha segnato e anzi spaccato la coscienza di questo Paese, colui che ha mandato al macero i Craxi, i Forlani e i loro epigoni, dovrebbe averci detto tutto da un pezzo. Senza se e senza ma. Senza riserve e senza reticenze.

C'era già stato un momento critico (eufemismo) quando si sfilò la toga. Inseguito dai fantasmi del suo passato non proprio cristallino.

Ora tornare così, con mezze allusioni, su arresti, manette e flash di quei giorni lontani e decisivi, non è all'altezza del

compito sostenuto. «Dovevano lasciarmela vivere in uno stato di diritto», si giustifica a proposito della propria parabola. Un finale sconcertante. Ma, ne siamo sicuri, non sarà nemmeno questa l'ultima puntata.

Stefano Zurlo

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