Politica

Politiche diverse, valori comuni

Non ha ancora un nome. È un'idea, una prospettiva, una fantasia. Se però il futuro lo pensi qualcosa succede. La realtà si muove

Politiche diverse, valori comuni

Non ha ancora un nome. È un'idea, una prospettiva, una fantasia. Se però il futuro lo pensi qualcosa succede. La realtà si muove. Immaginiamo un partito di centrodestra. Ecco, quella cosa evocata quasi per mischiare le carte, come fosse il segno di una nuova stagione, comincia a prendersi il suo spazio. È lì, tra le cose possibili. Non sai se si realizza, in che forma, se resta nel limbo, ma l'arte della politica è anche questo: disegnare mappe, scenari, rotte. Non lasciarsi scoraggiare dal «tanto non si può fare». Non è affatto facile. Non tutti lo considerano un buon posto dove andare. Non è a costo zero, ma non va neppure liquidato come un miraggio estivo.

Allora cerchiamo di mettere qualche carta sul tavolo, come modello storico, come punti di riferimento. Non è la prima volta, per esempio, che Silvio Berlusconi tira in ballo il partito repubblicano statunitense. Il Grand Old Party è una suggestione naturale. È un'architrave della democrazia occidentale. È il luogo dove si incrociano e si confrontano scuole politiche diverse, parecchio distanti le une dalle altre, ma che si riconoscono in alcuni punti fermi, in una carta dei valori. Non bisogna guardare solo a quello che è adesso, al cartello elettorale che cerca di ritrovare la strada dopo l'uragano Trump. Bisogna fare un viaggio a ritroso di almeno sessant'anni, quando il Gop stava vivendo una delle crisi più profonde della sua storia, con Richard Nixon sconfitto per un niente, 112 mila voti su 34 milioni, dal sorriso di John Fitzgerald Kennedy. È lì che i repubblicani cominciano un lungo viaggio nel deserto, amaro, duro, contando le volte in cui sono stati costretti a mettere il ginocchio a terra. È lì che però i repubblicani hanno definito la propria anima, chiamandosi per nome, gettando le basi per quello che poi sarebbe diventato: un partito conservatore multiforme, multistrato, multifacce. È la grande scommessa di un perdente illuminato, di Barry Goldwater. I voti, sostiene, in democrazia contano, contano tantissimo, ma non sono tutto. C'è tutto quello che viene prima. Ci sono le idee: pensate, raccontate, organizzate. Ci sono libri, riviste, giornali, incontri, televisioni. È Goldwater che costruisce, passo dopo passo, la cultura repubblicana. Ci vorranno anni. Non salirà mai alla Casa Bianca, ma apre la strada a Ronald Reagan. Non ci sarebbe mai stato Ronnie senza Barry.

Il modello più vicino in Europa è chiaramente quello dei Tory. Il Conservative Party di Churchill, della Thatcher e adesso di Boris Johnson. Non è facile da incarnare, perché è come rubare il segreto della corona britannica. C'è però una lezione che possono dare. Nessuno è pragmatico quanto i conservatori inglesi. Si possono anche scannare tra di loro, ma quando è il momento di giocarsela non si mettono a cavillare sulle differenze. Le discussioni ideologiche le lasciano ai laburisti. I Tory inglobano: classe sociali, interessi, territori e outsider. Lo fanno senza aver paura di perdersi. È da secoli che sanno chi sono.

Sono diversi dai francesi. In questo caso il modello potrebbe essere quello gollista. È la destra immaginata da De Gaulle, con la grandezza e le contraddizioni del suo fondatore. È un partito carismatico, che nasce conservatore e popolare, profondamente francese, scettico verso gli uomini d'affari, l'Europa e le influenze che arrivano dall'altra parte dell'Atlantico. Quando il generale non c'è più si reinventa liberista e tecnocratico. Non ha mai occupato tutto lo spazio della destra. Ha dovuto fare i conti con il lepenismo e allearsi con il centro liberale di Valéry Giscard d'Estaing. Non è solo una questione di valori. È la conseguenza dell'ingegneria elettorale francese, quel doppio turno che ha favorito per anni la «quadriglia bipolare imperfetta». Non due partiti, ma quattro più uno.

L'altra strada è quella tedesca. È la Cdu di Konrad Adenauer o di Helmut Kohl. È l'idea di un grande centro conservatore, cristiano e democratico che per decenni non lascia spazio politico alla sua destra. Non è esattamente come la Democrazia Cristiana, la Dc, che al suo interno aveva destra e sinistra, alto e basso e ogni sfumatura di corrente. La Cdu non governava per diritto divino e per il «fattore K». È un centro più definito e a lungo in grado di inglobare e guidare la destra. Il modello Cdu per Giorgia Meloni e Matteo Salvini assomiglia molto a una provocazione.

La realtà è che in Italia il «grande partito di centrodestra» passa per tante variabili. Non c'è un sistema presidenziale o semipresidenziale e questo rende più lontano il modello americano o francese. Non c'è la necessità politica di indicare una leadership forte. Non c'è più una legge elettorale a vocazione maggioritaria che renderebbe più facile il percorso verso il bipartitismo. Quello che invece si percepisce è un sentimento diffuso in Europa. Lo possiamo definire «conservatore» e «occidentale», altri magari lo chiameranno «vento di destra». C'è uno studio che viene da sinistra. È della «Fondation pour l'innovation politique», vicina a Sciences Po Paris. Racconta che la democrazia europea si sta spostando verso i partiti conservatori. Il 44 per cento degli italiani si definisce di destra, il 31 di sinistra. Le percentuali sono simili in Gran Bretagna (40%), Francia (38%), Germania (36%). Lo studio rivela che, rispetto a quello che in genere si sospetta, a riconoscersi nei valori di centrodestra sono soprattutto le giovani generazioni. È un sentimento che potrebbe diventare consenso elettorale.

Allora questa è la domanda con cui i leader di centrodestra devono confrontarsi: cosa fare di questi voti? Il «partito repubblicano» non è l'unica risposta.

L'importante è ricordarsi di quello che diceva Goldwater: per governare non bastano i voti.

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