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Quel ponte che scavalca la burocrazia

Quel ponte che scavalca la burocrazia

Ieri l'altro a Genova è stata completata la costruzione del diciottesimo e ultimo pilastro del ponte che andrà a sostituire il Morandi, il cui crollo, nell'agosto del 2018, provocò 43 vittime. L'inaugurazione della nuova struttura, un capolavoro di ingegneristica e di architettura firmato da Renzo Piano, è prevista per giugno, giusto a un anno dall'apertura del cantiere. È la prova che in Italia quando si vuole è possibile fare grandi opere velocemente e bene, che sul Paese non grava una maledizione divina che ci condanna all'immobilismo e allo sperpero.

Sapete perché a Genova è stato possibile? Semplice: perché la politica, la magistratura penale e civile, ecologisti, ambientalisti, burocrati, faccendieri, mafiologi, nani e ballerine sono stati tenuti alla larga dalle decisioni e dai lavori. Fuori tutto lo Stato, nella cabina di regia solo i vertici di due grandi imprese italiane, la Salini (privata) e Fincantieri (pubblica), un commissario responsabile di tutto (il sindaco di Genova Marco Bucci) e un supervisore (il governatore della Liguria Giovanni Toti). Fine dell'elenco e delle discussioni su cosa e come agire.

A fare ci pensano mille operai che ruotano sul cantiere ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana: da giugno scorso una pausa solo a Natale.

Vedrete che quando sarà inaugurato si dirà di un «miracolo a Genova». Io parlerei più di un «modello Genova», che a differenza dei miracoli è cosa umana e ripetibile ovunque, in qualsiasi momento, ed è l'unica strada concreta per rimettere in moto l'economia del Paese. In Italia ci sono ventiquattro grandi opere bloccate da burocrazia e cavilli che valgono quasi 25 miliardi. Il paradosso è che non mancano i soldi, ma i timbri.

L'Ance, l'associazione che raduna i Comuni, ha calcolato che un loro sblocco avrebbe un riflesso sull'economia, con l'indotto e i vantaggi, di 86 miliardi e di 380mila posti di lavoro.

E allora viene da chiedersi: perché invece di tante chiacchiere non varare ventiquattro modelli «ponte di Genova», o almeno abolire il macchinoso codice degli appalti, limitare l'invadenza delle tante autorità di controllo, togliere le leggi manettare che frenano funzionari e dirigenti pubblici che, per paura, non firmano più neppure un autografo? Qui non servono i miracoli, basterebbe un governo liberale, pragmatico e capace. Purtroppo quello che abbiamo è tutto l'opposto.

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