Coronavirus

Premier alla sbarra uno choc per M5s

A leggere le cronache di Storia Patria di interrogatori dentro le mura di Palazzo Chigi ce ne sono stati diversi, ma veder sfilare davanti ai magistrati un premier e due ministri, uno alla volta, può essere considerata un'assoluta novità.

Premier alla sbarra uno choc per M5s

A leggere le cronache di Storia Patria di interrogatori dentro le mura di Palazzo Chigi ce ne sono stati diversi, ma veder sfilare davanti ai magistrati un premier e due ministri, uno alla volta, può essere considerata un'assoluta novità.

Al punto che ieri mattina non era chiaro se l'edificio nobiliare che ha visto passare nelle sue stanze gli statisti, più o meno grandi, che hanno guidato la Repubblica, fosse ancora la sede del governo o un tribunale. E, visto che siamo a Roma, poteva sorgere pure il dubbio che non fossimo a piazza Colonna ma a piazzale Clodio, sede della cittadina giudiziaria della Capitale, con il premier non più nei panni di Giuseppe Conte, ma, se non ci fosse il dramma dell'epidemia, di Alberto Sordi nel film «Un giorno in Pretura». Con tutte le scene del caso. Con il premier che ha ripetuto di nuovo davanti ai magistrati il caposaldo della sua difesa - «rifarei quello che ho fatto dieci volte» come se 35mila morti fossero poca cosa. Mentre Rocco Casalino, non più portavoce del capo del governo, ma praticante dello studio legale Conte&Associati, scacciava per ore dalle teste di giornalisti e politici curiosi ipotesi di «avvisi di garanzia» o di «iscrizione sul registro degli indagati». Come fanno gli assistenti dei principi del Foro davanti agli uffici dei procuratori.

Ovviamente, nello stile del personaggio, con un lessico poco tecnico e più pregnante, addirittura, per alcuni versi, originale: «Questa è una caz..ta grossa come una Chiesa!».

A parte ciò le immagini dei magistrati che arrivano al mattino e se ne vanno alle 5 della sera, insieme alla notizia di un interrogatorio durato tre ore solo per il premier (a cui vanno aggiunte quelle che la Pm di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha dedicato ai ministri Lamorgese e Speranza), non hanno certo giovato al governo alla vigilia di un avvenimento internazionale come gli Stati Generali dell'Economia, che nell'agenda prevede l'arrivo a Roma di tutti i vertici Ue. Ma visto che la Procura di Bergamo non è quella del pool di Milano del 94 e Conte non è esposto alle antipatie delle toghe come Silvio Berlusconi, a cui un avviso di garanzia sabotò la conferenza sulla criminalità organizzata di Napoli, premier e magistrati si sono dati una mano per evitare danni irreparabili.

Conte per non rovinare lo scenario di Villa Pamphili, e non mandare a male i relativi catering, ha fatto sapere che tutto è «chiarito»; la Pm invece ha precisato che si tratta di interrogatori di «persone informate sui fatti» e di essere «grata» per le risposte che hanno contribuito a chiarire alcuni punti, ma non ha compiuto alcun passo indietro. Nulla di più. Il galateo istituzionale, com'è giusto, è stato salvaguardato, la Conferenza pure e gli sviluppi, se ci saranno (c'è anche chi scommette ancora su un avviso di garanzia in arrivo), salteranno fuori a Stati Generali fatti. Un trattamento di riguardo era il minimo che ci si potesse aspettare per un governo che, non è un mistero, ha al suo interno i terminali politici delle correnti delle magistrature più interventiste, dai giustizialisti ai nipotini delle toghe rosse (lo stile Palamara docet). Non per nulla Marco Travaglio, profeta del network giustizialista che fiancheggia Conte, aveva già fatto una rampogna qualche settimana fa al pm Rota, quando aveva osato mettere nel mirino il suo beniamino. Per cui il rispetto del galateo era nelle cose, il resto si vedrà.

Solo che proprio la vicinanza di Conte a quei mondi rende le immagini di ieri in ogni caso un problema per lui. Perché gli interrogatori a Palazzo Chigi al Cavaliere, garantista per esperienza e necessità, o a Maria Elena Boschi (lo ha sperimentato anche lei), che garantista lo è diventata alla dura scuola della vita, li metti in conto. Ma al premier di un movimento dal Dna giacobino, che ha introiettato il linguaggio della Rivoluzione francese (dal «cittadino deputato» agli «Stati Generali»), qualche danno nell'immaginario lo provoca.

Se ci fossero stati Berlusconi, Letta o Renzi, per fare dei nomi, al posto di Conte e nelle sue stesse condizioni, infatti, si può star sicuri che Travaglio avrebbe già eretto una ghigliottina accanto alla Colonna Antonina. Mentre per Piercamillo Davigo i poveretti sarebbero già dei «colpevoli non scoperti». È chiaro che «al popolo» di siffatta compagnia già solo essere interrogato da un magistrato ti fa apparire come un mezzo criminale. Ma forse non è più così, perché alla fine il Potere macera tutto. Annacqua pure il sangue del più ossessionato giustizialista. Anche il Fatto Quotidiano, che sotto la testata recita una frase altisonante, «non riceve alcun finanziamento pubblico», da far invidia alla Costituzione della Francia giacobina del 1793 (talmente rigorosa da non entrare mai in vigore), in qualche modo si è adeguato alla stagione di governo: grazie al decreto liquidità prenderà 2,5 milioni di euro da Unicredit con la garanzia dello Stato. Insomma, se la società non ce la farà a far fronte al debito, ci penserà Conte, o chi per lui.

È il neopragmatismo giacobino.

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