Lungo la galleria fotografica dei presidenti del Senato si susseguono ventuno austeri signori, ognuno figlio del proprio tempo. Dalla parete occhieggiano il pizzetto di Ivanoe Bonomi, i baffetti a spazzola di Meuccio Ruini, la diradata lisciata di Cesare Merzagora e Giovanni Malagodi fino ai sorrisi artificiali di Pietro Grasso. Dalle 13.25 di ieri, si è aggiunto il ritratto di una signora veneta di 71 anni con i capelli scuri e un po' mossi.
L'Italia repubblicana festeggia i 70 anni del Senato post fascista con la prima elezione di una donna, almeno con quarant'anni di ritardo rispetto all'insediamento di Nilde Iotti alla guida della Camera dei deputati. All'epoca, anno 1979, il Paese fu pervaso da commozione e celebrazioni per la tardiva tintura di rosa di un'istituzione dal monopolio maschile, se non maschilista. Nilde Iotti offriva il migliore identikit al mondo progressista che l'acclamava: staffetta partigiana, deputata comunista e, non guasta mai, ex compagna del Capo dei compagni (Palmiro Togliatti).
Per Maria Elisabetta Alberti Casellati, invece, non basta essere moglie, madre, giurista affermata e impegnata da 25 anni nelle istituzioni. Fateci caso: a sinistra è un tutto un però nei suoi confronti. Pasdaran berlusconiana, una vita a cavillare per produrre leggi favorevoli al Cavaliere, storielle di presunto familismo eccetera eccetera. È persino riemerso lo spezzone di una vecchia trasmissione televisiva con Marco Travaglio che la offende in diretta, presentato come una prova della sua inadeguatezza a ricoprire la seconda carica dello Stato.
Per la sinistra da salotto, e tutto il carrozzone dei maître à penser da talk show, la Casellati è già un corpo estraneo da combattere finché questa bizzarra legislatura durerà. La nuova presidente del Senato, dinanzi ai moralisti della verità assoluta, sconta il peccato originale di un curriculum depurato di qualsiasi commistione con la sinistra o il femminismo militante. E non si può certo bollare come una professionista della politica un avvocato di successo che scende in politica a 48 anni al culmine dell'ascesa professionale. Ma la Casellati, piaccia o no, è la Casellati: non imporrà ai funzionari di Palazzo Madama di citare «la Senata» anziché il Senato per surclassare la Boldrini; non porterà i riccioli rossi da sindacalista Cgil anni '70 come la Fedeli; non compilerà ogni giorni liste di mafiosi e collusi per presentarsi come la nuova Rosi Bindi.
Consiglio non richiesto. Resti sempre se stessa, finora non le è andata male, visti i traguardi tagliati nella vita e nella politica. Sappia resistere al richiamo tardo femminista delle donne (di sinistra) che odiano le donne (di destra). Quel mondo non la celebrerà come la prima donna alla guida del Senato: per loro sarà sempre una lottizzata del centrodestra miracolata da Berlusconi.
Resta, come monito, la sciagura umana e politica di Gianfranco Fini quando in età matura, da neoletto presidente della Camera, volle provare l'ebbrezza di farsi legittimare dalla parte politica che l'aveva disprezzato per decenni. Che disastro, vero?
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