Cronache

Quando le parole sono muri

Leggo su un quotidiano francese la storia di Fouad, un diciassettenne che alcuni giorni fa si è tolto la vita nella sua città, Lille

Quando le parole sono muri

Leggo su un quotidiano francese la storia di Fouad, un diciassettenne che alcuni giorni fa si è tolto la vita nella sua città, Lille. Fouad era un giovane transgender, in altre parole stava percorrendo la lunga e dolorosa via che porta a cambiare sesso. Qualche giorno prima di morire, Fouad si era trovato al centro di una polemica con i dirigenti della sua scuola perché si era presentato in classe indossando la gonna. La discussione si era svolta in realtà in modo pacato, nessuno aveva alzato la voce. Il dirigente scolastico era cosciente della problematica che si trovava a dover affrontare e aveva trattato Fouad usando un tono molto comprensivo e conciliante, dicendo che capiva perfettamente il suo dramma e che lo invitava soltanto a usare comportamenti che non causassero scandalo in quei compagni che non erano pronti ad accettare la sua nuova condizione. Colpisce la risposta di Fouad: bisogna educare anche loro (ossia quei compagni).

Ora, prima di giudicare la giustezza o meno di questa risposta e l'atteggiamento del dirigente scolastico, in questa vicenda ci sono alcune cose che colpiscono profondamente.

La prima è che dopo questa discussione Fouad si è tolto la vita. Può darsi che, in passato, fosse stato fatto oggetto di molestie, ma è molto probabile che questo dialogo sia stato per il povero ragazzo (che forse, per rispetto, dovrei chiamare ragazza, se non fosse che Fouad è morto con il suo nome maschile) più grave di qualunque molestia.

Eppure i toni erano stati pacati, il dirigente aveva usato un tono ragionevole, senza frapporre alcuna barriera ideologica. Non c'erano state contrapposizioni: questo ci suggerisce che la gravità stesse nel contenuto profondo di quelle parole, un contenuto oggettivo, indifferente ai toni. Un contenuto che il ragazzo ha considerato, a ragione o a torto, definitivo. Cosa importa se aveva ragione o torto? Cosa importa se le sue parole in risposta all'invito del dirigente fossero spontanee o se qualcuno gliele avesse suggerite? L'esperienza di quest'anno ci ha insegnato che le parole possono comunicare, ossia mettere insieme, unire (il termine comunicazione ha la sua origine nel sacramento dell'Eucarestia) ma possono anche innalzare nuove barriere. Mi domando: cosa ha sentito, quale eco, quale risonanza ha avvertito Fouad nelle parole del dirigente? Una risposta semplice e terribile si affaccia alla mente: Fouad ha avvertito l'accento di una condanna definitiva. È come se quel dirigente gli avesse detto: io capisco il tuo dramma, Fouad, ma tu devi capire che ci sono persone che non ti possono accettare, e anche se la scuola esiste per migliorare gli esseri umani, devi metterti in testa che esistono cose che non si possono migliorare, e siccome tu sei in minoranza, sarai tu a doverti adattare. La risposta di Fouad riluce così in tutta la sua tragicità: ma allora a che serve la scuola, se rinuncia a educare (perché Fouad ha usato esattamente questa parola, educare, non istruire o formare o addestrare) proprio chi ha la necessità di essere educato?

Questo è, credo, il baratro che le parole gentili e politicamente impeccabili di quel dirigente hanno aperto davanti agli occhi di Fouad. Non ci sono ragioni o torti, non ci sono buoni e cattivi, ci sono forse solo parole sbagliate, e le parole sono quasi sempre parole sbagliate perché quasi sempre producono contrapposizioni, polarizzazioni. Per questo detesto anche la sigla Lgbt, che unisce indebitamente in un'unica battaglia politica problemi completamente diversi tra loro, che devono essere affrontati uno per uno, con infinita attenzione.

Anch'io, anni fa, ho conosciuto un ragazzo come Fouad. Un ragazzo bellissimo, intelligente e capace. Aveva 16 anni, al tempo, e sentiva di essere una ragazza. Non era omosessuale, era una ragazza, probabilmente una ragazza eterosessuale. Ma posso sbagliare, s'intende. Ma il dirigente della sua scuola non si comportò come quello di Lille. Questo dirigente era un uomo di grande fede, un grande cristiano, non faceva discorsi politically correct e forse votava centrodestra (del resto, chi se ne frega). Ma aveva a cuore la realtà dei fatti. E, contro l'opinione cattolica corrente, alla fine, dopo molte notti insonni, convenne con i genitori del ragazzo che non esisteva altra strada che quella del cambiamento di sesso.

Non lo fece in ottemperanza a un principio, o a una convinzione filosofica, ma soltanto per rispetto della realtà. Un grande scrittore cristiano disse che il primo compito di uno scrittore cristiano è quello di non tradire la realtà.

Come del resto ci insegna il Natale, quello vero, quello che nessun Dpcm ci potrà togliere.

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