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La magia di Raffaello cinquecento anno dopo

La magia di Raffaello cinquecento anno dopo

Nella formazione di Raffaello fu determinante il fatto di essere nato e di aver trascorso la giovinezza a Urbino, centro artistico di primaria importanza del Rinascimento. Qui Raffaello, avendo accesso con il padre alle sale del Palazzo Ducale, studiò le opere di Piero della Francesca, Luciano Laurana, Francesco di Giorgio Martini, Pedro Berruguete, Giusto di Gand, Antonio del Pollaiolo, Melozzo da Forlì.

Raffaello apprese probabilmente i primi insegnamenti di disegno e pittura dal padre che, almeno dagli anni ottanta del Quattrocento, era a capo di una fiorente bottega, impegnata nella creazione di opere per l'aristocrazia locale e per la famiglia ducale, come la serie delle Muse per il tempietto del palazzo, nonché l'allestimento di spettacoli teatrali. Giovanni Santi inoltre aveva una conoscenza diretta e aggiornatissima della pittura contemporanea non solo italiana, come dimostra una sua efficace Cronaca rimata, scritta in occasione delle nozze di Guidobaldo con Elisabetta Gonzaga.

Nella bottega del padre, il giovanissimo Raffaello apprese le nozioni di base delle tecniche artistiche, tra cui probabilmente anche la tecnica dell'affresco: ma è Piero della Francesca, il più grande pittore del Quattrocento, il maestro ideale di Raffaello, il quale lo sente dentro di sé ben più del padre, attraverso una specie di comunicazione di questa visione assoluta che è un mondo delle idee, un mondo di perfezione, e che lui riprodurrà ovviamente rappresentandolo. Perciò la prima opera che dobbiamo legare alla formazione di Raffaello non è del padre, ma di Piero della Francesca, la Resurrezione, recentemente restaurata. Cristo risorge, ma tiene un piede sul sepolcro, come se volesse dire «io resto qui, anche se sto salendo verso il cielo». Questo è un miracolo dell'arte, superiore a un miracolo divino, perché grazie a questo affresco, che Aldous Huxley aveva definito «il più bell'affresco del mondo», l'ufficiale britannico Clarke si era rifiutato di eseguire l'ordine del comando generale di bombardare Sansepolcro.

Ebbene, nello stesso museo c'è il Polittico della Misericordia, che sembra poco dire e poco connettersi a un pittore moderno, soprattutto per la resistenza di un elemento tradizionale, che è il fondo oro, che si usa nella pittura bizantina, nella pittura del Duecento e del Trecento perché quel fondo rappresenti uno spazio non umano, solo divino, senza prospettiva, senza profondità. Dunque due sono gli elementi arcaici: il fondo oro, che appartiene alla tradizione medioevale, e il polittico, che è una composizione che non ha unità di spazio, ma ha ogni scomparto, ogni santo diviso. Purtroppo l'opera ha perduto la sua cornice, ma qui dovete immaginare che ci fossero dei pilastrini e che ognuno di questi santi stesse per conto suo. Nondimeno, il pensiero di Piero è già così legato ai temi di matematica e geometria che nonostante il fondo oro lui stabilisce una profondità prospettica, ed è nel basamento di marmo, che fa sentire la profondità, e i piedi poggiano su un terreno reale. Il resto è uno sfondo che non impedisce a questi personaggi di avere volume, di avere un respiro intorno. Sono delle statue come in una nicchia. Quindi Piero già contraddice la tradizione a cui è ancora legato, perché probabilmente il committente del dipinto richiede un polittico tradizionale. Poi al centro mette la Madonna della Misericordia, ieratica, solenne, come una pura idea, una pura essenza, e allarga il suo manto, misericordiosa, per proteggere l'umanità, di uomini e di donne. Ma quello che si vede è uno spazio quasi absidale, che contiene i personaggi le cui posture fanno sentire il movimento, la profondità. Quindi anche in un'opera come questa il teorema prospettico, che è quello che cerca Piero della Francesca, si realizza. Per esempio la Flagellazione di Urbino è pura prospettiva. Siamo intorno al 1445-50, e il pittore mostra tutta questa tradizione da cui non si vuole separare, pur contraddicendola.

Io immagino che Raffaello possa aver visto questo dipinto, perché Piero della Francesca è il maestro di Perugino, e probabilmente anche un maestro molto visto da suo padre, però nel 1470 questo pittore fa una rivoluzione che non manca di stupire ancora oggi. Partito di qui, e sia pure con tutti gli elementi di spazialità, di volumetria, che si vedono nella bellissima veste di quella solennissima Madonna, lui inventa una cosa senza precedenti che apre la strada a quella che si chiamerà «sacra conversazione» o «pala d'altare» in un unico spazio. Questa è la Pala di Urbino, che si chiama tale pur essendo a Brera. Napoleone la portò via; c'è ancora l'altare nel mausoleo dei duchi a San Bernardino a Urbino, dove l'opera è stata sicuramente vista più volte da Giovanni Santi e da Raffaello, ed è sorprendente vedere un'opera in cui tutto ciò che Raffaello penserà è già stato pensato, perché si nota come improvvisamente quello spazio indifferente del fondo oro diventa uno spazio reale, lo spazio di una chiesa con un'abside e un transetto. Una luce meravigliosa, zenitale che arriva, e un'ombra che crea questo effetto di profondità nell'abside, con il catino che è fatto da una conchiglia, che per rendere ancor meglio il volume geometrico fa scendere un uovo che dia il senso di quella spazialità. Non c'è niente di più bello al mondo, da lì viene tutto Raffaello.

Quando arriveremo alla Scuola di Atene troveremo che Raffaello non ha fatto altro che moltiplicare questa spazialità così aperta ai lati, nel transetto, e poi quella Madonna e quei santi che erano separati, in diversi scomparti del polittico, sono qui tutti insieme. Qui invece sono tre i santi, ma tutti nello spazio, vicino alla Madonna. Possono conversare con lei. Sacra conversazione. Conversano poco, ma all'improvviso potrebbero muoversi e parlare, San Giovanni Battista, San Bernardino, San Gerolamo, San Francesco, San Pietro Martire, e forse San Pietro o San Paolo, comunque sono tutti accolti nello stesso spazio vicino alla Madonna che però è distante, regale e un po' separata da loro attraverso una scorta di corazzieri che sono i quattro angeli, angeli meravigliosi ancora più belli di quelli di Raffaello, pieni di ornamenti, che presidiano la sua autorità, la sua solennità, la sua regalità. Però tutti insieme (e in ginocchio Federico da Montefeltro) sono in uno spazio unitario, una stanza, la prospettiva è compiuta.

Raffaello guarda quest'opera e se ne lascia penetrare fino all'inverosimile. La sua arte parte da qui. Nasce nel 1483, tredici anni dopo che quest'opera è stata compiuta, ma immagino che già intorno ai dodici anni - Piero era ancora vivo - fosse lì davanti a vedere l'opera di questo maestro inarrivabile, e sentisse questo spazio meraviglioso, e queste luci, e queste ombre, e questo palchetto architettonico, e queste lesene, e queste lastre meravigliose di marmi, specchiature di marmi. E lei al centro, e intorno tutti pronti a stringersi intorno alla Vergine, i santi e gli angeli, che danno la presenza divina, e poi il potere, il potere terreno, e il bambino, che troveremo in altri dipinti, che dorme. Non è un bambino vispo come quelli di Raffaello: è un bambino che già fa sentire il suo destino di Cristo morto. Poggia sulle ginocchia della madre come il Cristo poggerà sulle ginocchia della Madonna nella Pietà di Michelangelo. In qualche modo il suo sonno è una previsione della sua morte e resurrezione, indicata anche dal corallo. Non credo esista un dipinto più bello di questo e più grande e più carico di pensiero e di spirito, di matematica, di geometria. Raffaello parte di qui. Però è costretto a incrociare i colori con suo padre, il quale qualche cosa avrà fatto anche lui nella bottega, secondo quanto Vasari ci racconta dei suoi anni originari. «Nacque Rafaello in Urbino, città notissima, l'anno MCCCCLXXXIII, in venerdì Santo, a ore tre di notte: d'un Giovanni de Santi pittore, non molto eccellente, anzi non pur mediocre in questa arte. Egli era bene huomo di bonissimo ingegno et dotato di spirito, et da saper meglio indiriz are i figliuoli per quella buona via, che per sua mala fortuna non avevano saputo quelli che nella sua gioventù lo dovevano aiutare. Per il che natogli questo figliuolo, con buono augurio al battesimo gli pose nome Rafaello: et subito nato, lo destinò alla pittura ringraziandone molto Idio», gli mette insomma il pennello in mano a un anno. «Né vole - prosegue Vasari - mandarlo a baglia, ma che la madre propria lo alatassi continovamente. Crescendo fu ammaestrato da loro, che altro che quello non avevano, con tutti que' buoni et ottimi costumi che fu possibile: et cominciando Giovanni a farlo esercitare nella pittura et vedendo quello spirito volto a far le cose tutte secondo il desiderio suo, non gli lasciava metter punto di tempo in mezzo né attendere ad altra cosa nessuna, acciò che più agevolmente et più tosto venissi nell'arte di quella maniera che egli desiderava». Soltanto pittura; è una vita dedicata a questa frenetica, intensissima attività di artista. «Aveva fatto Giovanni in Urbino molte opere di sua mano et per tutto lo Stato di quel Duca, et facevasi aiutare da Rafaello, il quale, ancorché fanciulletto...».

Inaugurandosi ora le celebrazioni raffaellesche, ricordo che nel 2018 a Urbino c'è stata una mostra di Giovanni Santi, nel 2019 una mostra su Raffaello e i suoi amici e una mostra di Raffaellino del Colle. Il prossimo marzo aprirà a Roma quella alle Scuderie del Quirinale, mentre a Urbino aprirà una mostra su Baldassarre Castiglione, autore de Il Cortegiano, il più bel libro del Rinascimento, in cui si racconta com'erano le corti dei principi, i luoghi di teatro, i letterati, i musici. Il dipinto più bello di Raffaello è proprio il ritratto di Baldassarre Castiglione. Dove sta? Al Louvre. Sarebbe però interessante rivedere le trenta pale d'altare di Giovanni Santi per capire dove sia intervenuto il ragazzo, perché è troppo chiaro ciò che dice il Vasari. Certamente sarà stato intimidito dal padre, il quale però gli insegnava la tecnica, ma non era in grado di dargli le idee, che gli vengono dal maestro di tutti i maestri che era Piero della Francesca. «Né lasciava Giovanni per questo - prosegue Vasari - di cercare d'intendere per ogni via chi tenessi il principato nella pittura; et trovando che i più lodavano Pietro Perugino, si dispose potendo di porlo seco, et perciò andato a Perugia et non trovandovi Pietro, si messe per poterlo meglio aspettare, a lavorare in San Francesco alcune cose. Ma tornato Pietro da Roma prese alcuna pratica seco. (...) Et Pietro che era benigno per natura, non potendo mancare a tanta voglia accettò Rafaello. Onde Giovanni con la maggiore allegrezza del mondo tornò ad Urbino et non senza lagrime et pianti grandissimi della madre lo menò a Perugia. Dove Pietro veduto il disegno suo i modi et i costumi, ne fe' quel giudizio che il tempo dimostrò vero». Quindi il maestro sicuro di Raffaello è Perugino; e, prima di lui, essendo anche maestro di Perugino, Piero della Francesca, che è un maestro di pensiero, un maestro di una nuova visione del mondo.

Adesso vediamo come funziona il rapporto con il Perugino. Perugino ai suoi esordi non è un pittore ripetitivo, come poi accadrà nella maturità, non è un pittore che si riproduce in modo molto intensivo, ma è un pittore straordinariamente originale. Lo vediamo nel 1473, tre anni dopo il capolavoro di Piero, in una serie di dipinti per San Bernardino, a Perugia. Lavorano Pinturicchio, Piermatteo d'Amelia e diversi pittori, per questa nicchia di San Bernardino. Sono piccole tavole, ma si vede come dentro ci sia l'anima di Piero della Francesca. Perugino non è ancora il pittore devoto di Madonne dolcissime che sicuramente Raffaello guarderà, ma riesce a raccontare le storie di San Bernardino con architetture straordinarie, come archi di trionfo in quel Rinascimento che è rinascita dell'antico, con quelle lesene, quelle decorazioni, gli ornamenti, la cornice con le perle... Qualcosa di raffinatissimo con l'apertura verso il paesaggio, un bambino viene travolto da un toro e San Bernardino lo fa risorgere, e intanto intorno le persone si affollano, ma protagonista è l'architettura, il timpano, la conchiglia, che si è già vista in Piero della Francesca. Qui Perugino, in questi anni, è il migliore interprete di Piero della Francesca.

Immaginiamo di essere nel 1473, mancano ancora dieci anni alla nascita di Raffaello. Io immagino che sia nella bottega di Perugino intorno al 1495-96, ai suoi tredici, quattordici anni. Però, intanto, vediamo come Perugino sia un grandissimo pittore, in questa fase. Poi torniamo a Piero della Francesca. Serve anche questo, perché lo troveremo nel percorso dell'opera romana alle Stanze vaticane di Raffaello. Molti avranno visto ad Arezzo, nella Basilica di San Francesco, le Storie della Vera Croce di Piero della Francesca. E qui c'è il Sogno di Costantino. Un'opera straordinariamente innovativa, addirittura caravaggesca. Si vede in controluce, di spalle, il soldato di sentinella, e la luce che entra dentro la tenda in cui dorme Costantino, e l'altro personaggio che ha il volto in luce, ma l'elmo gli fa ombra sul volto. Un genio assoluto. Sicuramente ad Arezzo, per vedere il ciclo delle Storie della Vera Croce, andò Raffaello, e fu davanti a questi capolavori che capì tutto. E dovettero rimanergli nella mente per quello che troveremo, cinquant'anni dopo, a Roma, perché Piero è dentro di lui, ma non avrà nessuna remora a distruggerne gli affreschi per dipingere i propri sopra quelli. Vediamo qui un tema salviniano. Che cosa sta capitando? Che l'angelo porta una croce: In hoc signo vinces. Ecco la croce. Questo riferimento alla contemporaneità serve per dire che il più grande ciclo della storia dell'arte del Rinascimento è la leggenda della vera croce di Piero. Non dimenticate questo affresco, perché è dentro Raffaello nel momento in cui rappresenterà un episodio analogo con un effetto di controluce.

Il 10 dicembre 1500 Raffaello ed Evangelista da Pian di Meleto ottennero dalle monache del monastero di Sant'Agostino a Città di Castello incarico, il primo documentato della carriera dell'artista, per la Pala del beato Nicola da Tolentino, terminata il 13 settembre 1501 e oggi dispersa in più musei, dopo che venne sezionata in seguito a un terremoto nel 1789. Nel contratto è interessante notare come Raffaello, poco più che esordiente, venga già menzionato come «magister Rafael Johannis Santis de Urbino», prima dell'anziano collaboratore, testimoniando ufficialmente come venisse già, a diciassette anni, ritenuto pittore autonomo dall'apprendistato concluso.

A Città di Castello l'artista lasciò almeno altre due opere di rilievo, la Crocifissione Gavari e lo Sposalizio della Vergine. Nella prima, databile al 1502-1503, si nota una piena assimilazione dei modi di Perugino (un «Crucifisso, la quale, se non vi fusse il suo nome scritto, nessuno la crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro», scrive Vasari), anche se si notano i primi sviluppi verso uno stile proprio, con una migliore interazione tra figure e personaggi e con accorgimenti ottici nelle gambe di Cristo che testimoniano la piena conoscenza degli studi di matrice urbinate, dove l'ottica e la prospettiva erano materia di studio comune fin dai tempi di Piero della Francesca.

Verso il 1503 l'artista dovette intraprendere una serie di brevi viaggi che lo portarono ai primi contatti con importanti realtà artistiche. Oltre alle città umbre e alla nativa Urbino, visitò quasi sicuramente Firenze, Roma (dove assistette alla consacrazione di Giulio II) e Siena. Si trattò di brevi viaggi, magari di qualche settimana, che non possono essere definiti veri e propri soggiorni. A Firenze vide forse le prime opere di Leonardo da Vinci, a Roma entrò in contatto con la cultura figurativa classica (leggibile nel dittico delle Tre Grazie e nel Sogno del cavaliere), a Siena aiutò l'amico Pinturicchio, ben più anziano e in pieno declino, a preparare i cartoni per gli affreschi della Libreria Piccolomini, di cui restano due splendidi esemplari agli Uffizi, di incomparabile grazia ed eleganza rispetto al risultato finale.

L'opera che conclude la fase giovanile, segnando un distacco ormai incolmabile con i modi del maestro Perugino, è lo Sposalizio della Vergine, datato 1504 e già conservato nella cappella Albizzini della chiesa di San Francesco di Città di Castello. L'opera si ispira a una pala analoga che il Perugino stava dipingendo in quegli stessi anni per il Duomo di Perugia, ma il confronto tra le due opere mette in risalto profonde differenze. Raffaello infatti copiò il maestoso tempio sullo sfondo, ma lo alleggerì allontanandolo dalle figure e ne fece il fulcro dell'intera composizione, che sembra ruotare attorno all'elegantissimo edificio a pianta centrale. Anche le figure sono più sciolte e naturali, con una disposizione nello spazio che evita un rigido allineamento sul primo piano, ma si assesta a semicerchio, bilanciando e richiamando le forme concave e convesse del tempio stesso.

Al centro del quadro viene posizionato un gruppo di persone divise in due schiere, aventi come perno il sacerdote, il quale celebra il matrimonio tra la vergine Maria e San Giuseppe. Il gruppo delle donne (dietro Maria) e il gruppo di uomini (dietro Giuseppe) formano due semicerchi aperti rispettivamente verso il tempio e verso lo spettatore.

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