Una fetta di libertà in meno oggi per poter tornare a goderne appieno domani è una rinuncia accettabile? Oppure la sicurezza sanitaria non vale una tale intollerabile privazione? Tutto gira intorno a questo dilemma etico, umano, psicologico, economico: il centro ideale della politica mondiale, la sfida che segnerà (almeno) una generazione. Per questo vederla affrontata in maniera gretta da tutte le parti in causa fa così tristezza.
Perché l'ipotesi al vaglio del governo e delle Regioni di imporre misure più drastiche per contenere l'aumento preoccupante di contagi sta già scatenando le stesse meschine dinamiche di marzo: lo scaricabarile fra poteri dello Stato, la paura di intestarsi decisioni impopolari, la contestazione a prescindere di ogni scelta, i manicheismi da tifoserie opposte. Piccolezze per le quali il Paese ha già pagato un prezzo molto alto e di cui non ha bisogno. Quello di cui ha bisogno è chiarezza. Ed efficienza nel sostegno.
Questo Giornale è nato per difendere la libertà di pensiero dal conformismo e non sarà un virus a mutarne il dna. Ma pensare che davanti a diecimila contagi al giorno e agli indici che si impennano non si debbano prendere delle misure di contenimento non è liberalismo, è utopia o malafede. Abbiamo vissuto mesi di illusione collettiva, rimuovendo un po' irresponsabilmente il problema, bramosi di una gioia di vivere che era stata ingabbiata. L'autunno ci ha risvegliato bruscamente e i numeri dei ricoveri non lasciano più nessuno spazio per l'ottimismo. Per questo eventuali provvedimenti temporanei di salute pubblica - la chiusura anticipata dei locali, il divieto di assembramenti e movida, l'obbligo di mascherina, ecc - sono non solo accettabili, ma ineluttabili. Perché l'alternativa alle regole più rigide non è l'esistenza normale a volto scoperto e a socialità allargata che tutti vorremmo riprendere, ma un'altra ecatombe e un nuovo inevitabile lockdown di due mesi. Chi si lamenta oggi delle chiusure parziali, forse ha dimenticato i danni che fece quella totale.
Altrettanto, non ci siamo dimenticati l'inaccettabile incertezza in cui il governo ha lasciato imprenditori e lavoratori in difficoltà durante quel blocco senza precedenti: la cassa integrazione in ritardo di mesi, il tempo buttato senza organizzare piani di emergenza per i trasporti e la scuola, la burocrazia sfinente che rendeva la richiesta di aiuti un dramma nel dramma, il letargo in cui la macchina dei tamponi e dei controlli è caduta, i bisticci di maggioranza che ci hanno privato dei soldi del Mes.
Ecco, così come non vorremmo ritrovarci nello stesso lockdown, pretendiamo di non ritrovarci alle prese con lo stesso Stato inefficiente che abbandona i cittadini a cui chiede sacrifici. Si sente dire sempre più spesso che le uniche cose davvero irrinunciabili sono lavoro e scuola. Ma si dimentica che dietro ai «superflui» bar, locali, ristoranti, centri sportivi e teatri c'è altro lavoro. Dunque, se per proteggere la collettività dal contagio si impongono limitazioni a queste attività, il governo - che della collettività è espressione - ha il dovere di risarcirle immediatamente per i mancati introiti. Senza promesse «poderose», senza inventare scuse.
Purtroppo, la sensazione invece è che su questo secondo fronte si vada incontro agli stessi errori, come in un eterno ritorno dell'uguale. Lo prova il fatto che - mentre si convocano vertici per le nuove misure anti-Covid - ieri il fisco è tornato a bussare alle porte dei contribuenti.
Nove milioni di cartelle e un solo messaggio: l'Italia sta tornando in un'emergenza sanitaria che prevede nuove chiusure, ma il tempo della pietà fiscale è finito. Con una mano si chiude e si impedisce di guadagnare, con l'altra si preleva. Possiamo accettare la prima, ma solo se il governo ha il buon senso di tenere in tasca la seconda.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.