In uno dei corridoi di Palazzo Madama che introduce alla buvette del Senato, il presidente dei senatori grillini, Stefano Patuanelli, parla del paradosso di Giuseppe Conte sul global compact, il documento delle Nazioni Unite che equipara gli immigrati che hanno diritto all'asilo politico a quelli economici: il premier all'assemblea dell'Onu a New York aveva annunciato che lo avrebbe firmato; a Roma, invece, si è rimesso alle decisioni del Parlamento, disertando il vertice di Marrakech dove avrebbe dovuto dare la sua adesione all'iniziativa delle Nazioni Unite. «Il vizio di Giuseppe confida il capogruppo 5stelle è che vuole piacere a tutti. La sua qualità, invece, è che sa incassare. Ricorda quei ministri democristiani che dicevano una cosa con il sorriso e, magari, qualche ora dopo, il suo contrario con la stessa espressione in viso. Noi non faremo nessuna battaglia sul Global Compact e, semmai, il Parlamento affronterà la questione nelle aule deserte di agosto. Nel movimento l'anima ministeriale si sta rafforzando». Cambia lo scenario e il personaggio, ma non la sostanza del ragionamento. A Montecitorio il sottosegretario agli Esteri grillino, Manlio Di Stefano, è sulla stessa linea di Patuanelli: «Con tutti i casini che abbiamo, ci manca solo il Global Compact! Lo rinviamo al prossimo anno e, comunque, non faremo barricate. Faremo sfogare un po' dei nostri che sono in Parlamento, che hanno l'ossessione di Salvini per l'immigrazione, ma finirà lì. Noi che siamo nel governo sappiamo benissimo che le intese dell'Onu sono scritte sull'acqua, per cui non valgono guerre in seno alla maggioranza».
Cinismo politico, real politik, il governo innanzitutto, le poltrone sempre e comunque: se si torna indietro nel tempo, alla prima Repubblica, sembra di ascoltare i democristiani di fede dorotea, la corrente scudocrociata ancorata alle poltrone. Nacque come risposta allo strapotere di Amintore Fanfani, ma nella storia Dc finì per coincidere con la filosfia del potere per il potere, del governo per il governo. E oggi fa una certa impressione ascoltare Pierferdinando Casini, che da giovane democristiano ne fece parte, lanciarsi in questo paragone. «Io che li conoscevo bene racconta vi posso assicurare che sono tali e quali. I grillini hanno due anime: quella movimentista e quella ministeriale. Per quest'ultima il governo ha un valore in sé. Hanno la stessa filosofia dei dorotei della fase declinante». Un'opinione che è condivisa anche da Pierluigi Castagnetti, un ex dc di casa al Quirinale con Mattarella, che pure doroteo non lo è mai stato. «Nessuna illusione spiega a questo governo non succederà niente. I grillini andranno dietro alla Lega. Sono terrorizzati dalle elezioni. Sono disorientati. Sono diventati i nuovi dorotei».
Ai «guevaristi» nostrani del movimento, ai Fico, ai Di Battista, le orecchie dovrebbero fischiare, ma come nella Dc i dorotei, i grillini «ministeriali», «filogovernativi» rappresentano la maggioranza del movimento, la palude che determina le scelte. Sono quelli che hanno inserito il condono edilizio per Ischia dentro il decreto per il ponte di Genova. Quelli che hanno retroterra elettorale in quelle aree del Paese dove il lavoro nero è di casa: il feudo elettorale di Giggino Di Maio, coincide più o meno con quello che all'epoca era il serbatoio dei consensi di un altro doroteo famoso, Antonio Gava. Sono quelli che hanno fatto fuoco e fiamme sull'idea leghista di obbligare i comuni che sono quasi in bancarotta e che raccolgono solo il 50% dei tributi, di utilizzare le bollette per garantirsi il pagamento delle tasse comunali. «Quelli pensano ai clientes, come i dorotei», ci scherza su il sottosegretario leghista all'Interno, Stefano Candiani. Sono quelli, per usare le parole dell'ex ghostwriter di Grillo, Marco Morosini, che ha raccontato al Foglio il disinnamoramento del comico per il movimento, «che hanno scelto di restaurare la Casta». Insomma, questa fattispecie del grillismo in cinque mesi è riuscita a percorrere la distanza siderale che divide Rousseau dal doroteismo.
Ed è con loro che debbono fare i conti quelli che ipotizzano elezioni o nuovi governi, specie ora che il caso Di Maio ha messo piombo sulle ali del consenso dei 5 Stelle: questo «tipo» di grillino non lo stacchi dalla poltrona neppure con la fiamma ossidrica. È il convitato di pietra dei calcoli sulle elezioni che Matteo Salvini ha fatto ad un'ex forzista campana che gli ha chiesto un biglietto per Strasburgo: «Lascia stare il Parlamento europeo. A ottobre del prossimo anno o, al massimo, nella primavera del 2020, si voterà per il Parlamento italiano! Io i grillini non li sopporto più, ma non voglio essere io ad aprire la crisi perché ho preso un impegno di fronte agli italiani. Per cui appena mi danno uno spiraglio per rompere, lo faccio». Il problema è che i grillini di governo, come i maestri dorotei, non gli daranno mai l'occasione, faranno sempre il muro di gomma. Non per nulla ad un altro azzurro di provenienza veneta, che è andato a farsi leggere le carte per il futuro, Di Maio si è lasciato andare a questa profezia: «Fino alle elezioni europee non succederà niente. Poi faremo il tagliando al governo. Ma andremo avanti lo stesso». Appunto, la crisi di governo è difficile, ma lo sarà ancora di più e in questo ha ragione Berlusconi andare alle elezioni. I grillini espulsi dal movimento, quelli che avevano l'anima democristiana ancor prima di entrare nel movimento, si stanno già muovendo. «Siamo già pronti confida Catello Vitiello, eletto nelle liste 5stelle ma espulso subito dopo perché massone ma ci muoveremo solo se si aprirà una crisi di governo, per formarne un altro ed evitare le urne».
Sono i meccanismi imperscrutabili che regolano la vita dei Parlamenti. Del resto se l'altro ieri, uno dei bersagli preferiti dei gialloverdi, il senatore a vita Mario Monti, ha votato per il governo di Conte, può succedere davvero di tutto. Ma la crisi di governo e, ancora di più, le elezioni anticipate, sono prospettive che possono aprirsi solo in due casi: se la crisi di consenso grillina nei sondaggi contagerà anche Salvini; oppure, se il movimento 5stelle esploderà, con il divorzio dell'anima movimentista da quella dorotea. Due meccanismi che possono essere innescati solo se le diverse opposizioni recupereranno appeal. Se una Forza Italia, magari rinnovata, con un altro nome, riuscirà a diventare riferimento del Nord produttivo, deluso dall'attuale governo. Se il Pd uscirà fuori dalla sua crisi, o diventerà altro. Tanti «se». Troppi «se». Ma qualcosa si muove.
L'ultima idea l'ha tirata fuori il presidente dei senatori piddini, Andrea Marcucci: «Noi renziani potremmo continuare a presidiare il Pd anche dopo le primarie, mentre Renzi potrebbe correre da solo, inventarsi un'altra cosa. Per collaborare insieme dopo il voto. È un'ipotesi a cui Matteo sta pensando...».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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