Alcuni economisti sostengono che la “sharing economy” sarà il futuro del mondo globalizzato e lo salverà dal progressivo declassamento. E restaurare vecchie pratiche, attualizzandole con gli strumenti messi a disposizione dal terzo millennio, sembra diffondersi a macchia d’olio già oggi. Dopo il car sharing, il bike sharing e il car pooling per quanto riguarda i trasporti, il couchsurfing nel mondo degli alloggi, dopo il ritorno a forme di scambio nel segno del risparmio e della solidarietà reciproca, ora arrivano anche in Italia gli “home restaurants”. Privati cittadini aprono le proprie case ad estranei invitati a cena a pagamento condividendo cibo fra perfetti sconosciuti e contribuendo alla spesa. Ancora una volta, il web e le piattaforme social permettono il primo contatto, selezionando, prenotando e pagando l’evento. E’ questa l’ultima frontiera del social eating.
Giovanni ha 45 anni e vive a Parma. Da giovane ha frequentato l’istituto alberghiero e ha sempre coltivato la passione per la cucina. Quando ha deciso di cedere la sua attività di edicola - complice la difficoltà del settore - si è reinventato senza uscire di casa. “Ho scoperto il mondo dell’home restaurant per caso e mi ci sono avvicinato subito. Non riuscendo a starmene con le mani in mano, mi sono creato il mio piccolo ristorante fatto in casa”. E sono tanti che perdono o lasciano il lavoro per ricominciare tra i propri fornelli: “Oggi accolgo turisti, residenti dei dintorni e a volte amici - continua Giovanni - La mia cucina piace, l’ambiente anche, e si è sparsa la voce della mia piccola attività occasionale. Così mi diverto e sto sempre in buona compagnia, non credo ci sia di meglio”.
Ovviamente, non tutto è semplice né idilliaco. Siamo pur sempre in Italia, e spesso alcune innovazioni di carattere alternativo stentano a trovare spazio in ambienti già controllati. Infatti ben presto ristoratori e Confcommercio hanno alzato la voce sostenendo la natura totalmente illegale ed anti-igienica delle attività, chiedendo interventi immediati.
Eppure al momento non esiste una normativa che disciplini queste attività e anche dal punto di vista fiscale può essere equiparata a un’attività saltuaria d’impresa, per cui il cosiddetto “homer” (colui che organizza la cena) deve rilasciare ai clienti una ricevuta e documentare le spese sostenute.
Tuttavia un recente parere del Ministero dello sviluppo economico rischia di smorzare gli entusiasmi di quanti si sono lanciati in questo business: nella nota del 10 aprile 2015, infatti, gli “home restaurants” vengono equiparati alle attività di somministrazione di alimenti e bevande. Eccole, le toppe burocratiche che tanti italiani purtroppo conoscono bene.
La dichiarazione dal Mise, difatti, renderebbe automaticamente tutti gli homers, anche quelli già in attività, fuorilegge.Gli homers, intanto, continuano a cucinare in casa a pagamento e si difendono: “Non siamo gli Uber della ristorazione, il tempo ci darà ragione”. Vedremo.
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