Roma sfregiata dai rifiuti e dai delinquenti

Termini ridotta a casbah e "tassinari" ostili: viaggio nel declino della (ex) Caput mundi

Roma sfregiata dai rifiuti e dai delinquenti

È calata sulla vecchia urbe una forfora polverosa, una muffa che sottomette sia le cose sia gli esseri umani. Se prima era soltanto caotica, disorganizzata e assassina con le buche e i sanpietrini carnivori che si nutrono di donne coi tacchi, oggi Roma è una città depressa e sciatta.

La sciatteria è un eczema del raggismo: non che tutta la colpa debba cadere personalmente su Virginia Raggi, eterodiretta e debole, ma è la conseguenza delle chiacchiere senza senso e degli scontri demenziali come quello di una decina di giorni fa tra il sindaco e il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda, con un minuetto deprimente di «quasi quasi disdico», «se disdici ti fai male», «no sei tu che fai male a Roma», come i bambini dell'asilo.

La depressione che grava sulla capitale inacidisce nella paranoia collettiva a bassa ma crescente intensità e nella violenza. Il porcaio carnaio indecente dell'area della Stazione Termini ne è la prova. Gli africani, i mendicanti, le bande che taglieggiano, taccheggiano e sopraffanno agiscono ad orari fissi e specialmente di notte hanno ridotto ormai la zona in una casbah.

Su un ridicolo monumento seminascosto a Papa Giovanni Paolo II i bivaccanti vanno ad orinare e chi arriva a Roma - capitale di uno Stato ormai moscio e ipocrita - prova una sensazione di malessere, prima di accorgersi che ci sono contemporaneamente due file gigantesche: quella lunghissima di chi è appena sceso dal treno e deve prendere un taxi, e quella dei taxi in attesa di clienti che sono centinaia e si muovono alla rinfusa su una prateria di bitume, senza un obbligo, una corsia, una vigilanza.

Una porcheria del genere non la vedi a Londra, a Parigi, a Berlino e devi andare nel vicino Oriente per trovare un simile impatto «a sciame», in cui è previsto che ciascuno si arrangi, che vinca come diceva Darwin non il migliore ma chi si sa adattare e sa piegarsi senza farsi venire un collasso.

I tassisti romani sono di tre categorie. I migliori taxi sono guidati dai quarantenni dell'ultima generazione, di solito preparati, cortesi e all'altezza dello standard europeo. Ma i giovani purtroppo non sono la maggioranza, che è ancora composta da vecchi tassisti accidiosi e con un'espressione ostile sul viso detti con dispregio «tassinari» i quali sono in genere villani, non parlano che il romano, ci marciano sugli itinerari e sul tassametro, spennano il pollo di turno se vedono che è un pollo straniero, decrepiti e stremati da decenni di traffico romano che macina corpo e anima per usura, ma anche di malaffare, di furbizie, di cinismo pratico, di mancanza assoluta del senso della comunità: ognuno per sé e «fatti li c... tua» è il motto sulla bandiera.

E poi ci sono i pochi ma micidiali tassisti mafiosi, che i loro colleghi descrivono come la peste e che imperversano impuniti davanti alla Stazione Termini o all'aeroporto di Ciampino. Li riconosci per l'abbigliamento da coatti, la coda di cavallo, l'aria da comparsa cinematografica per «Suburra» (prodotto seriale orrido nutrito dei peggiori luoghi comuni) e un atteggiamento da bulli.

Gli affiliati di questa banda comandano sui tassisti normali che cercano di defilarsi mentre i bulli si scelgono i clienti in sella sulla balaustra che argina i clienti in attesa e si rimpallano la merce umana in un'asta delirante, con urla da cowboy di Tor Bella Monaca comandando il branco.

Contro costoro nessuno fa niente: l'amministrazione Raggi avrebbe potuto dopo un anno nel pantano del nulla creare un corpo di agenti municipali sotto copertura ed eliminare i malfattori, ma non ne ha alcuna intenzione.

Così, quella che prima era soltanto una eterna piaga, ora è una cancrena con i tassisti onesti sputtanati davanti al mondo intero perché la loro reputazione è messa al rogo sui social dagli utenti stranieri.

Ci sarà pure una ragione per cui Dubai, che è un'entità architettonica nata dal nulla come dal nulla nacque Las Vegas, incassa il triplo dei turisti stranieri che vengono a vedere la sopravvalutata città eterna che teoricamente sarebbe la città più ricca di tesori d'arte del mondo e di tutti i tempi, seguita soltanto da Firenze, ma in cui tutto è marginale, occasionale, un'arlecchinata di occasioni perse per mancanza assoluta di una visione, di un piano, di un'idea di Roma da vendere ai milioni di viaggiatori che non cercherebbero altro e che invece vengono nella capitale italiana per una abboffata di ciarpame e visite guidate estenuanti e senza un senso moderno della visione e del godimento.

E ci sarà una ragione per cui il turismo mondiale si trova bene a Berlino, città totalmente ricostruita dopo la guerra e dopo la caduta del Muro. Per non dire di Milano che comunque ha avuto una sferzata con l'Expo mentre a Roma si nega per principio l'Olimpiade o il grande evento perché nessuno si sente di contendere alle mafiosità e gruppi di potere la trasparenza negli appalti.

«Il fatto è mi dice un tour operator che i turisti americani e giapponesi vogliono andare a Parigi, Berlino, Madrid, Barcellona e accettano nel pacchetto una puntata a Roma, di cui non sanno niente ma chiedono di vedere San Pietro, il Colosseo, la Cappella Sistina, essere maltrattati su qualche osteria da marciapiede, abusati dai soliti sanpietrini assassini e fare un tour a via Condotti e le vetrine dei grandi negozi di lusso come fanno anche a Milano e ovunque. E poi, il prima possibile, vogliono scappare a gambe levate e tornare nella civiltà di qualche metropoli degna di questo nome». Roma non incassa neanche un centesimo di quel che potrebbe. Manca di sex appeal, vive soltanto di leggenda, luoghi comuni e dissesto, leggende metropolitane e rumori in gara con miasmi.

Questa città l'ho vista gonfiarsi con metastasi di cemento, diventare una ricotta come diceva Pasolini, era piena di preti e suorine e monsignori e cardinali, poi di sindacalisti, manifestanti, un tempo la Scuola romana d pittura valeva quanto quella di New York, oggi ci sono soltanto jeanserie e straccerie per soddisfare il vomito che esce dalla metropolitana di piazza di Spagna e chiede sacrifici umani, chiede che la città com'era sparisca dalla faccia della terra.

Ma ancora non avevo visto questo luogo eccessivo e delicatissimo, fragile nei suoi marmi, fragile nella sua identità, subire gli effetti di una chemioterapia senza effetti terapeutici, un accanimento di quisquilie burocratiche perverse, di liti demenziali, di decadenza visibile nel crollo di Via Veneto e dei luoghi una volta sacri dell'intellettualità ma anche dello shopping, un accanimento terapeutico sulla sua pallida personalità che la sta portando non alla morte, che sarebbe un fatto terribile e drammatico, ma in un universo di sciatteria senza fantasia, senza uno straccio di visionarietà, di utopia, di consapevolezza della materia di cui è

fatta Roma, che somiglia a quella delle mummie che possono resistere in un buio protettivo per cinquemila anni, ma che se le esponi alle urla dei burocrati e dei carpentieri svaniscono un una nuvola di polveri.

(1 Continua)

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